NON ESCO CON IL MIO CAPO SCORBUTICO

Capitolo 1

Hil

 

“Credo di avere appena ucciso qualcuno,” dissi mentre mi sentivo la faccia diventare pallida.

“Hil, sei tu?” la preoccupazione di Dillon per il mio benessere era una delle cose per cui avevo imparato a volerle bene.

“Sono io. Che cosa ho fatto?”

“Dove sei stata? Ero preoccupata a morte! Dov’eri?”

“Sono in un ospedale,” le spiegai, guardando attorno a me i volti preoccupati delle altre persone nella sala d’attesa.

“No, voglio dire, in quale città ti trovi? Stai bene?”

“Sto bene. Ho prestato a qualcuno la mia macchina ed è successo un incidente. Ho ricevuto la notifica sul telefono di essere stata tamponata e che era stata chiamata un’ambulanza. Dillon, penso che qualcuno abbia cercato di farmi finire giù per un burrone.”

“Hil, devi dirmi dove sei.”

“Non so dove sono. È una piccola cittadina nel Tennessee. Ma sto bene. Avevo solo bisogno di sentire la tua voce. Non puoi dire a nessuno che hai parlato con me.”

“Remy mi ha chiesto di te. Ha detto che tuo padre è preoccupato.”

“Non puoi assolutamente dirglielo. Promettimi che non lo farai.”

“Hil…”

“Promettilo!”

“Okay. Lo prometto. Ma non puoi scomparire in questo modo, di nuovo.”

“Non lo farò. Ma devo fare questa cosa, devo provare a tutti quanti che posso farcela da sola.”

“Non hai appena detto che qualcuno ha provato a farti finire in un dirupo?”

“Starò bene Dillon. Posso farcela.”

“Mi è stato detto che hanno fatto entrare mia madre,” disse qualcuno con il più forte accento del sud che io avessi mai sentito, distraendomi dalla conversazione con Dillon.

Alzai la testa e vidi un ragazzo al bancone dell’accettazione, a venti piedi di distanza da me. Aveva capelli nero corvino, spalle larghe e una costituzione atletica. Riuscivo a vederlo solo di spalle ma ero attratta da lui. E quando il ragazzo che mi portò in macchina all’ospedale corse verso di lui, mi alzai anch’io per raggiungerli.

“Devo andare.”

“Non sparire di nuovo. Devi dirmi dove sei.”

“Ti chiamerò presto. Te lo prometto, Dillon.”

Chiusi la chiamata e raggiunsi i due ragazzi al bancone dell’accettazione. Marcus, quello che mi aveva accompagnato, si voltò verso di me mentre mi avvicinavo. “Hil, questo è Cali. La Dottoressa Sonya è sua madre.”

Il tizio più alto mi guardò. Mi tremarono le ginocchia mentre lo stava facendo. C’era qualcosa nel suo profumo e nel modo in cui i suoi occhi scrutavano i miei che mi fece sentire debole.

“Perché mia madre stava guidando la tua macchina?” sbottò l’uomo stupendo.

Feci un passo indietro, presa alla sprovvista. Comprendevo bene perché fosse arrabbiato. Lo sarei stata anch’io nella sua situazione. Ma non riusciva a capire che anche io ero preoccupata?

“Quando sono arrivata al bed and breakfast mi aveva fatto i complimenti per l’auto. L’aveva poi menzionata alcune volte, quindi siccome avrei dovuto partire oggi, le ho chiesto se volesse provare a farci un giro. Non avrei dovuto? Non è brava a guidare?”

Fissandomi, Cali si calmò.

“No, non fa niente. È brava a guidare come chiunque. Non potevi sapere cosa sarebbe successo. Scusami, come hai detto che ti chiami?”

“Sarebbe Hilaire, ma tutti mi chiamano Hil,” risposi, tendendogli la mano.

Avvolse la mia mano paffuta nella sua e la strinse più a lungo di quel che mi aspettassi. Il modo in cui mi scrutava mi fece sentire vulnerabile. Era come se riuscisse a vedere dentro di me. Non avevo segreti quando mi guardava in quel modo.

“È un piacere conoscerti, Hil. Immagino di doverti chiedere scusa per quel che è successo alla tua macchina.”

“Non essere ridicolo. È per questo che esistono le assicurazioni. Spero solo che tua madre stia bene.”

Cali lasciò andare la mia mano e si voltò, rompendo quella specie di connessione che avevamo. Faceva male sentire di averla persa. Il lato negativo di essere cresciuta nel modo in cui ero cresciuta io, era che non avevo mai avuto la possibilità di incontrare ragazzi come Cali. Mio padre era così protettivo che non andai mai a scuola. Non avevo avuto altro che tutori. Non avevo mai avuto una vita.

Quando mio padre scoprì che stavo iniziando a interessarmi ai ragazzi, non ne fece un gran problema. Ma i ragazzi diventarono un’altra cosa dalla quale mi doveva proteggere. Mi sentivo come la sua piccola principessa. Ma una di quelle che non avrebbe mai potuto trovare un principe. Avevo la sensazione che nessuno si fidasse di me. Quello era in parte il motivo per cui avevo intrapreso questo viaggio, per dimostrare che potevo sopravvivere da sola.

Ad essere sincera, un’altra ragione era che di ragazzi con l’aspetto di Cali che mi facevano sentire quel che lui mi faceva sentire, ce n’erano davvero pochissimi. A venti anni ero ancora vergine. E questo non sarebbe mai cambiato continuando a vivere sotto la protezione di mio padre. Dovevo andarmene. Ma ora ero in un ospedale nel mezzo del nulla in Tennessee, non ben sicura di cosa fare, dove andare o come arrivarci.

“Grazie per essere venuto Marcus. Ma non devi rimanere. Sono certo che hai molto da fare. Non voglio trattenerti,” disse Cali senza guardarlo.

“No, posso rimanere per tutto il tempo di cui hai bisogno. È tua madre, ma ci tengo anch’io a lei.”

“Grazie. Ma Claude e Titus saranno qui presto, non c’è ragione per cui tu debba rimanere,” lo liquidò in modo sprezzante il ragazzo corpulento.

“No, davvero, posso rimanere per tutto il tempo di cui hai bisogno.”

Cali si girò a guardarlo con un’espressione che sembrava fosse stata scolpita nel marmo.

“Marcus, vai. Ti farò sapere come sta. Sono anche certo che Hil abbia bisogno di un passaggio.”

Feci un salto nel sentire il mio nome pronunciato sempre con quel tono sprezzante. Non voleva che rimanessimo qui? Era arrabbiato con me? Se non fosse stato per me, sua madre non si sarebbe trovata in questa situazione.

Misi una mano sulla spalla di Marcus.
“Dovremmo andare, sono certa che Cali ci aggiornerà non appena ne saprà di più.”

Cali si girò a guardarmi con sollievo. Non ero sicura del perché. C’era qualcosa fra i due. Forse avevano dei trascorsi?

Mi voltai di nuovo verso Marcus per guardarlo meglio. Non era il mio tipo nel modo in cui Cali lo era, ma era comunque molto attraente. Non aveva neanche l’ombra del fisico dell’Adone che stava in piedi di fianco a lui, ma era in forma e aveva anche lui fossette come Cali.

“Posso portarti di nuovo a casa della Dottoressa Sonya,” disse Marcus, troppo abbattuto per incrociare i suoi occhi con i miei.

“Grazie,” gli dissi come se non mi importasse di restare tanto quanto lui.

“Di nuovo, mi spiace per quel che è successo a tua madre,” aggiunsi, attirando l’attenzione di Cali ma non il suo sguardo.

A malapena mi considerava. Lo fissai: avrei voluto tanto avvolgere le mie braccia attorno a lui e dirgli che sua madre si sarebbe rimessa presto. Ma c’era un’armatura appuntita che lo proteggeva, e non potevo penetrarla. Si comportava in quel modo perché aveva notato quanto io fossi attratta da lui? Non ci capivo molto di ragazzi, ma sapevo che quelli attraenti come lui non erano mai interessati a ragazze con un po’ di curve come me. Forse era così freddo perché non voleva darmi un’impressione sbagliata. Oppure era solo schifato dal mio aspetto e voleva che me ne andassi. Qualsiasi fosse la ragione, dovevo sparire.

Andandocene come Cali aveva richiesto, Marcus e io rimanemmo in silenzio mentre guidavamo di nuovo verso il bed and breakfast. Durante tutto il tragitto, rimuginò sull’incontro con Cali sentendosi confuso quanto me.  Ripensandoci anche io, mi chiesi se Cali mi avesse davvero rifiutato. Avevo la tendenza a comportarmi in modo molto insicuro quando c’era di mezzo il mio peso. Cali non sembrava essere un cattivo ragazzo. C’era forse la possibilità che non fosse un gran chiacchierone? Era sempre stato poco loquace?

Parlando di chiacchiere, qual era la storia fra lui e Marcus? C’era una ragione per cui sembrava esserci tensione fra i due? Avevano avuti trascorsi?

“Devo chiederti scusa per il modo in cui Cali ha reagito. Di solto non è così…” Marcus fece una pausa.

“Così veloce a disfarsi delle persone?”

Marcus rise. “No, quello è tipico di Cali. Di solito è un po’ più gentile, però. Non prenderla sul personale.”

“E tu?”

“E io cosa?”

“Tu la prendi sul personale?”

La bocca di Marcus si aprì, ma non disse nulla. Ci mise un po’ di tempo prima che parlasse di nuovo.

“A volte. Io e lui siamo andati allo stesso liceo. Cali era nella squadra di football e aveva ragazze che gli si buttavano addosso. Diciamo che non abbiamo frequentato gli stessi ambienti.

“Ma le nostre madri sono amiche, quindi eravamo spesso costretti a passare del tempo insieme. Mi sentivo sempre come un peso per lui, e immagino che nulla sia cambiato.”

“Quindi Cali ha avuto molte fidanzate?” gli chiesi, non riuscendo a nascondere le mie intenzioni.

Marcus mi guardò, aggiungendosi alla lunga lista di persone che potevano vedere esattamente quel che mi passava per la mente. Rise.

“È strano, ma nonostante ci fosse sempre una fila di ragazze a stargli dietro, non l’ho mai visto veramente con una di loro. Lui è più un tipo solitario e scontroso.”

“Ha menzionato due ragazzi che l’avrebbero raggiunto. Immagino quindi che nessuno di loro due sia un fidanzato?” chiesi con esitazione.

Marcus rise di nuovo.

“No, Claude e Titus sono i suoi fratelli, che ha appena scoperto di avere.”

“Appena scoperto?”

“Sì. Lo scorso autunno la fidanzata di Titus ha fatto fare ad alcune persone un test del DNA e d è venuto fuori che loro tre condividono lo stesso padre.”

“Oh wow!”

“Era esattamente quel che ha pensato il resto della città. È stato un vero scandalo. La madre di Cali era uno degli argomenti di cui nessuno riusciva a smettere di parlare. Loro tre avevano lo stesso padre? Come fanno ad avere quasi la stessa età? Chi era quest’uomo?

“Nessuna delle madri l’ha mai rivelato. A quanto pare non l’hanno mai detto neanche ai figli. Cali e la Dottoressa Sonya erano molto attaccati l’uno all’altra, fino a quel momento. Ora Cali passa la maggior parte del suo tempo all’università.”

“Cali va al college?”

“Sì, è nella squadra di football. Sia lui che Titus. La scorsa stagione Titus ha stabilito il record di metri corsi, e Cali ha battuto il record di metri calciati.”

“Una famiglia atletica.”

“A quanto pare,” disse Marcus con evidente dolore negli occhi.

“Mi sembra di capire che tu non frequenti l’università?” chiesi, presumendo che avesse all’incirca la mia stessa età.

“Non sono stato benedetto con la naturale abilità che così tante persone hanno in questa città. Se si trovava nell’acqua, io di certo non l’ho bevuta,” mi rispose offrendomi un sorriso.

“No, ma ho assaggiato i tuoi dolci. Non hai bisogno di giocare a football quando sai creare delizie che hanno quel sapore. Conosco persone che ucciderebbero per provare uno dei tuoi croissant al cioccolato,” risposi in modo sincero.

Marcus arrossì. Fu sufficiente per farmi credere che potesse essere interessato a me. Mi occorse solo un momento per immaginarlo nudo prima di capire che lo vedevo più come un fratello che come qualcuno con cui volevo andare a letto. Cali, invece, solo pensarlo mi dava la sensazione che qualcuno mi stesse stringendo il cuore. Era così che ci si sentiva a desiderare qualcuno?

“Mi fa piacere che tu lo dica,” disse Marcus, distraendomi dalla mia sempre più elaborata fantasia su Cali. “Cucinare dolci mi rilassa.”

“Darei un braccio per essere brava a fare qualsiasi cosa come tu sei bravo a cucinare dolci. Non ti saprei nemmeno dire come bollire un uovo.”

Marcus rise. Forse pensava che io stessi scherzando. Ma non stavo scherzando. Sin da piccola ero sempre stata servita da governanti e cuochi. Per un breve periodo avevamo persino avuto un assaggiatore di cibo. È un po’ difficile imparare a sopravvivere da sola quando c’è una sfilza infinita di persone che sono pagate per fare cose al tuo posto.

Cambiando argomento per il resto del nostro viaggio di tre quarti d’ora, mi raccontò di come fosse stato crescere in una piccola cittadina. Era molto diverso da come ero cresciuta io a New York. Gli chiesi se avesse mai catturato delle lucciole in un barattolo. Lui rise e mi rispose che sì, lo aveva fatto.

“La prossima cosa che mi racconterai è che tu e i tuoi amici andavate a pescare giù al fiume.”

Mi guardò, imbarazzato.

“No, seriamente?”

“Non capisci quante poche cose ci siano da fare qui. Ma hai mai provato? È molto divertente.”

“Immagino. Di sicuro più divertente che essere costretto a giocare per forza con un bambino con cui i tuoi genitori ti hanno obbligato a passare pomeriggi insieme.”

Marcus mi guardò confuso e mi chiese “I tuoi genitori ti obbligavano a giocare di pomeriggio con alcuni bambini?”

“Sì. Non è così che fanno le persone in cittadine piccole come questa?” chiesi, cercando di combattere contro l’imbarazzo e la vergogna che provavo dal pensare a come i miei genitori avessero tentato di trovarmi degli amici e di come avessero fallito.

“No, mai successo qui.”

“Uno dei lati positivi di essere stata educata in casa, immagino,” dissi con una scrollata di spalle, desiderando disperatamente cambiare argomento.

Per fortuna Marcus distolse lo sguardo senza rispondere e calò di nuovo il silenzio fra noi. La mia incapacità di riuscire a farmi degli amici era un altro mio punto debole. Se non fosse stato per Dillon, sarei stata una ragazza grassa chiusa in camera ogni giorno con le dita coperte da residui di patatine. Già, avevo davvero bisogno di questo viaggio.

Quando arrivammo di nuovo al bed and breakfast, Marcus mi chiese se avessi bisogno di altro ora che non avevo una macchina. Gli risposi che non avrei avuto problemi. Poi mi diede il suo numero di telefono e mi disse di chiamarlo se mai avessi avuto bisogno di qualcosa. Ne fui grata.

Stavo cercando di essere indipendente e appoggiarmi solo su me stessa, ma la verità era che non sapevo che cosa stessi facendo. Che cosa avrei fatto ora che non avevo un’auto? In più, che cosa avrei fatto senza contanti?

Se aveste cercato di intraprendere lo stesso viaggio che stavo facendo io, non avreste potuto fare affidamento alla carta di credito di vostro padre. Gli acquisti con le carte di credito potevano essere tracciati. Se l’avessi usata, mio padre avrebbe saputo esattamente dove mi trovavo.

In alternativa, avreste potuto prendere l’auto di famiglia senza un dispositivo di tracciamento, mettervi in tasca un po’ di mazzette di contanti che vostro padre teneva nascoste in casa, spegnere il vostro telefono e andare dove più vi faceva piacere.

Quella era l’opzione che avevo scelto. Ma avevo anche tenuto i contanti nella mia macchina, pensando che fosse il posto più sicuro dove conservarli. Certo avrei dovuto pensarci prima di lasciare che la Dottoressa Sonya usasse la macchina per farsi un giro. Ma come avrei mai potuto indovinare che la mia macchina e tutto il mio denaro sarebbero finiti giù in valle ai piedi di una montagna?

Cosa avrei dovuto fare ora? Non avevo un’auto, non avevo contanti, e se non mi sbagliavo la Dottoressa Sonya aveva qualcun altro in programma da far soggiornare nella mia camera quella stessa sera.

Non che non avessi altre opzioni. Se fosse venuto il peggio, avrei sempre potuto usare la mia carta di credito oppure chiamare a casa. Ma non lo volevo fare. Per una volta nella mia vita volevo mostrare a mio padre che non ero completamente senza speranza. Potevo prendermi cura di me stessa. Ma più passava il tempo durante la mia piccola avventura, più iniziavo a pensare di non esserne in grado.

Entrando nel bed and breakfast mi accolsero le facce di quattro persone che si voltarono subito per guardarmi. Sembravano due coppie, vestiti per una vacanza avventurosa. Indossavano scarponi da escursione e c’erano grandi zaini sul pavimento vicino al divano. Immaginavo che questi fossero gli ospiti che la Dottoressa Sonya aveva detto che avrebbero preso il mio posto. Non ero sicura di cosa potessi dire loro, quindi al posto di dire qualcosa corsi verso la mia stanza.

Dietro la porta chiusa a chiave, mi buttai sul letto e mi misi a fissare il soffitto. Mi sentivo così persa. Dovevo fare qualcosa, giusto? Non potevo rimanere lì e basta, sperando che tutto si aggiustasse da sé. Le persone che si appoggiavano solo su loro stesse non si mettevano all’opera? Non anticipavano che cosa sarebbe potuto accadere e si facevano trovare pronte?

Paralizzata, rimasi lì sdraiata per più di un’ora considerando le mie opzioni. Sapevo che Dillon mi avrebbe aiutata se avesse potuto, ma il nostro rapporto non era così. Ero io quella che l’aveva adottata. Dillon era la figlia della mia governante preferita. Dopo che, un giorno, i miei genitori ebbero organizzato un pomeriggio di giochi insieme, decisi che lei avrebbe ottenuto la vita che io avevo sperato di avere.

Una volta diplomata al liceo, convinsi mio padre a fondare una borsa scolastica e mi accertai che lei la ottenesse. Controllai anche che la sua stanza al dormitorio del college fosse fornita di tutto ciò di cui potesse avere bisogno. La borsa includeva del denaro da poter spendere, quindi non aveva avuto bisogno di trovare un lavoro, e aveva anche un po’ di soldi per dei vestiti in modo che potesse trovare un bravo ragazzo e vivere una vita felice.

Non feci tutto questo perché volessi qualcosa da lei. Era mia amica e volevo solo che fosse felice. Ero certa che mi avrebbe aiutata in quel momento se avesse potuto. Ma lei era in New Jersey, e io sapevo esattamente quanti soldi avesse in banca. Chiedere aiuto a Dillon non era un’opzione.

Sentii qualcuno bussare alla porta e mi ripresi dalla mia spirale negativa di pensieri. Mi rimisi rapidamente in sesto e mi alzai. Era diventato buio da quando mi ero sdraiata. Balzai in piedi e accesi la luce.

“Sì?” dissi, trovandomi all’improvviso faccia a faccia con le guance scolpite di Cali.

“Mi chiedevo se te ne saresti andata presto?” mi chiese con un evidente peso sulle spalle.

Non volevo pesare su di lui con i miei problemi insignificanti. Aveva già abbastanza di cui occuparsi per colpa mia.

“Sì, certo. Penso di avere perso la cognizione del tempo.”

” È solo che c’è una prenotazione per questa camera, e devo ancora pulirla…”

“Capisco.”

“Se hai bisogno di più tempo…”

“No, non ho molto con me, posso andarmene in pochi minuti.”

Al posto di rispondere, fece passare il suo sguardo su tutto il mio corpo. Mi diede una sensazione di calore che si fermò in profondità dentro di me. Stringendo le sue labbra, mi fece un cenno e tornò al piano di sotto.

Bene, era giunto il momento. Avrei dovuto prendere una decisione. Buttai le poche cose che avevo nella mia borsa, diedi un’ultima occhiata al mio riflesso nello specchio e lasciai la stanza.

“Me ne sto andando,” dissi a Cali quando lo trovai in cucina.

“Okay, grazie,” disse, indietreggiando nella stanza alle mie spalle.

Senza altro posto dove andare, raggiunsi gli ospiti nel salotto. Era uno spazio molto accogliente. I mobili erano ben tenuti e c’erano immagini di volatili appese alla tappezzeria. Un grande tappeto ornamentale decorava il pavimento sotto il tavolino da caffè. Gli scaffali tutto intorno ai muri erano carichi di libri e souvenir provenienti da tutto il mondo.

Mi chiesi come potesse essere crescere in un posto come quello. Sembrava una casa piena di amore. Sapevo che cosa si provasse. Mio padre era intensamente devoto alla sua famiglia. Mia madre, mio fratello ed io eravamo tutto per lui. Era il resto del mondo che aveva una buona ragione per avere paura di lui.

Ci vollero solo venti minuti perché Cali ritornasse e accompagnasse i nuovi ospiti alle loro stanze. Mi guardò e i nostri occhi si incrociarono per un momento. Ma fu tutto. Lui era occupato. E lo capivo. Come poteva sapere che cosa io stessi passando? Ad ogni modo, aveva cose più importanti e reali di cui preoccuparsi.

Trenta minuti dopo, quando ritornò in salotto e vide che non mi ero mossa da lì, mi sentii imbarazzata. Non riuscii a guardarlo.

“Va tutto bene?” mi chiese, attirando i miei occhi verso i suoi.

Mentre lo guardavo, iniziai a sentire le lacrime farsi strada per uscire. Sapevo di sembrare ridicola. Avevo delle opzioni. Non avevo niente di cui lamentarmi. Ma eccomi lì, a piangere mentre una persona che poteva stare perdendo sua madre rimaneva forte.

“Mi dispiace, ora me ne vado,” dissi alzandomi, prendendo la mia borsa e correndo verso la porta.

“Aspetta, fermati!” ordinò, bloccandomi sui miei passi. Rimasi voltata, non potevo guardarlo.

“Non hai una macchina. Dove stai andando?”

“Posso chiamare qualcuno per un passaggio.”

“Se avessi potuto, l’avresti già fatto. Hai un posto dove andare?”

“Davvero, non preoccuparti per me. Come sta tua mamma?”

Quando non rispose, mi girai per guardarlo. Notai il dolore che stava provando.

“Il dottore dice che si rimetterà. Ma riesco a malapena a guardarla conciata in quel modo. È sempre stata così piena di vita, sai. Vederla sdraiata su quel letto con quei tubi attaccati a lei, non sono riuscito a sopportarlo.”

Senza pensarci, mi avvicinai a lui e gli poggia una mano sulla spalla. Se ci avessi pensato prima di farlo, probabilmente non mi sarei mossa. Quando lui non si spostò, fui felice di averlo fatto.

“Il dottore dice che starà bene?”

Lui annuì.

“È un’ottima notizia. Non so dirti quanto io sia felice di sentirlo.”

Come se si fosse pentito di avermi fatto vedere uno spiraglio sotto la sua maschera, si raddrizzò di colpo e si spostò.

“Grazie. E mi dispiace molto di quel che è successo alla tua macchina. Mia madre ha un’assicurazione. Me ne occuperò io.”

“Davvero, non ci pensare. Tu preoccupati solo di tua madre e di tutto quel che hai sicuramente da fare.”

“Non c’è problema. Ma non hai risposto alla mia domanda. Hai un posto dove andare?”

Mi chiesi che cosa potessi rispondergli. Gli avevo già detto che non avrei avuto problemi. Non aveva accettato quella risposta. Decisi che avrei dovuto dirgli la verità. Scossi la testa facendo cenno di no.

“Allora resterai qui,” disse in modo gentile.

“Ma la stanza non è più disponibile.”

“Starai in camera mia,” mi disse, sicuro di sé.

Rimasi a bocca aperta mentre lo guardai, chiedendomi che cosa stesse suggerendo. Mi chiarì subito le idee.

“Io starò nella camera di mia madre. Camera mia non è grande ma…”

“Grazie. Sono certa che sarà più che sufficiente,” dissi, provando una sensazione di sollievo.

“Dovrai darmi alcuni minuti per sistemare in giro e magari cambiare le lenzuola,” disse mentre le sue guance pallide diventavano rosse.

“Non ti disturbare,” lo implorai.

“No, dammi solo un minuto. Torno subito,” e corse su per le scale.

Guardai il suo sedere mentre se ne andava. Wow!

 

 

Capitolo 2

Cali

 

Mentre la accompagnavo lungo il corridoio fino alla mia camera, mi immaginai la ragazza che mi stava seguendo. I suoi capelli ricci e scompigliati le cadevano giù fino a metà fronte. E i suoi occhi grandi e le sue labbra rosa e carnose mi ricordavano una bambola Kewpie. Era la ragazza più bella che io avessi mai incontrato.

Quello non era però il momento di pensare a certe cose. Avevo altro di cui preoccuparmi. Mia madre era in ospedale. Era difficile non darmi la colpa del suo trovarsi là.

Sin da quando avevo scoperto che Titus, Claude e io eravamo fratelli, c’era stata della tensione fra mia madre ed io. Quando l’avevo affrontata al riguardo, aveva stretto le labbra ed era andata via. Lei lo sapeva. Per tutta la mia vita, lei aveva saputo che io avessi fratelli e non me lo aveva mai detto. Perché? Come aveva potuto farmi questo?

“Eccoci qui,” dissi voltandomi verso la ragazza tutta curve e ben più bassa di me.

“Sei sicuro che vada bene?” mi chiese, con gli occhi che mostravano una certa fragilità.

“Non è un problema,” le dissi, guardandola senza espressione.

La bellissima ragazza continuò a fissarmi come se avesse qualcosa da dirmi. Non riuscivo a immaginare cosa avrebbe potuto essere. Guardandola a mia volta, sentii un dolore nel petto. Fui sovrastato dal desiderio di stringerla fra le mie braccia e far scivolare le dita fra i suoi capelli. Guardai da un’altra parte per potermi riprendere.

“Pensi che tua madre tornerà a casa presto?” mi chiese, attirando il mio sguardo.

“Non ti preoccupare, puoi tenere la stanza fino a quando ne avrai bisogno.”

Hil sembrò imbarazzata.

“Non lo stavo chiedendo per questo.”

Guardandola di nuovo, era chiaro che quello non era il motivo per cui fece quella domanda.

“Certo. No, sono sicuro che ci vorranno almeno ancora un paio di giorni. Il dottore mi ha detto che sembra peggio di quel che è. Per fortuna si tratta solo di un po’ di graffi e lividi. Ha scongiurato molti dei danni interni che avrebbero potuto rendere le cose più complicate. Ma non è ancora del tutto salva. Tornerò in mattinata a vedere come sta,” dissi, sentendomi ancora una volta sopraffatto dal senso di colpa.

“Per favore, portale i miei auguri.”

La guardai. Il dolore nei suoi occhi mi suggeriva che si ritenesse davvero responsabile di ciò che era successo a mia madre. Non riuscivo a capirne il perché. Non era lei quella che l’aveva tamponata e aveva abbandonato la scena del crimine. Era quella che aveva chiamato l’ambulanza che l’aveva salvata.

Strinsi le mie labbra e annuii prima di girarmi verso la camera di mia madre e lasciarmi Hil alle spalle. Aprii la porta in fondo al corridoio e non mi guardai indietro. Volevo disperatamente farlo, ma non volevo affezionarmi troppo. Avrebbe potuto essere già partita quando il giorno dopo mi sarei svegliato, ed ero stanco di sentirmi con il cuore spezzato.

La fiducia era un problema per me e non mi aiutava il fatto che la persona di cui pensavo di potermi fidare mi avesse fatto vivere in una bugia. Quindi non mi sarei permesso di iniziare a provare qualcosa per Hil, non importa quando stupendi fossero i suoi occhi. Dovevo proteggermi da lei.

Ma con la porta chiusa alle mie spalle, me la immaginai di nuovo davanti agli occhi. Subito, il mio cuore iniziò a battere all’impazzata. Misi una mano sopra  il petto e la strinsi, affondando le unghie nella pelle.

Quella non era la prima volta che provavo dei sentimenti per qualcuno, ma le altre volte non era stato così. Avevo avuto delle cotte, ma questo sembrava qualcosa di più. E più lo provavo, più sapevo di doverlo combattere.

Cercando di levarmela dalla testa, mi tolsi la maglietta e i jeans e mi buttai sul letto di mia madre. Era strano trovarsi lì. Non ci dormivo da quando ero bambino.

Quel che avevo detto a Hil era vero. Il Dottor Tom, il medico di mia madre, pensava che si sarebbe completamente ripresa. Ma quel che non avevo detto a Hil è quanto pessimo fosse il suo stato. La pelle era ricoperta di lividi viola. Era piena di antidolorifici e mi guardava come se io non fossi lì.

Mia madre era sempre stata così forte, così piena di vita. Avevo sempre pensato che lei fosse “troppo”. Ma ora avrei dato qualsiasi cosa per riaverla come era.

C’era una ragione per cui lei non mi aveva mai detto che io avessi dei fratelli, giusto? E perché si era sempre rifiutata di dirmi qualsiasi cosa riguardo mio padre? Doveva esserci un motivo.

Ma niente di tutto ciò era importante ora. L’unica cosa che importava era che lei si riprendesse. E io avrei fatto qualsiasi cosa perché accadesse.

 

Seduto nella sala d’attesa il mattino successivo, varie immagini mi ballavano nella mente. Mamma avrebbe avuto un aspetto migliore? Peggiore? Le medicine che le stavano dando stavano forse mascherando una ferita interna che l’avrebbe derubata del suo spirito?

Non avevo chiuso occhio la notte precedente pensando a tutto questo. Ero stato un idiota a litigare con lei. Adesso avrei dato qualsiasi cosa per cambiare le cose.

“Il Signor Shearer?” mi chiamò una donna corpulenta dalla pelle scura da dietro il bancone della reception.

Mi alzai e corsi veloce verso di lei.

“Sono io,” dissi con il cuore in gola.

“Può rientrare ora,” mi fece un cenno guardandomi appena.

Il suo evitare il mio sguardo era forse perché le cose non erano andate bene durante la notte? Mi salì una vampata di caldo in tutto il corpo mentre consideravo questa possibilità.

“È stata spostata nella camera 201. È al secondo piano. Ha bisogno di indicazioni?”

“Le avete cambiato stanza?”

Gli occhi stanchi della donna incontrarono i miei. Dopo solo un secondo, tornarono a guardare in basso il foglio di carta davanti a lei.

“Qui dice che è stata spostata per un miglioramento della sua condizione. È una buona notizia,” disse con un sorriso di rito.

“Grazie,” le risposti sollevato, e mi avviai verso le scale.

Non mi piaceva l’odore degli ospedali. Puzzava di morte. E lo sapevo troppo bene. Non avrei mai potuto sopportare il perdere mia madre. E per quanto cercassi di non pensarci, il pensiero mi invase la mente mentre attraversavo i corridoi.

Quando trovai la stanza 201, strinsi la maniglia e mi bloccai sulla soglia. Non sarei mai stato in grado di reggere un peggioramento nelle condizioni di Mamma. Tutta questa storia era un incubo. Il mio cuore batteva all’impazzata e il mio respiro si fece affannato al solo pensiero.

Raccogliendo tutto il coraggio che avevo, bussai e spinsi delicatamente la porta. Sbirciando dentro, trattenni il respiro.

“Cali?” una voce stanca ma familiare mi accolse.

“Sì, sono io Mamma.”

“Sono felice di vederti,” mi disse con occhi stanchi e con un sorriso.

Lasciando che la porta si chiudesse dietro di me, entrai e mi misi su un lato del letto. Nonostante fosse più sveglia della scorsa notte, il suo aspetto era peggiorato. Tutti i lividi viola si erano fatti più scuri. Non riuscivo a immaginare come quello potesse essere un buon segno, ma non l’avevano spostata in una nuova stanza proprio perché stava migliorando?

“Ho un aspetto così brutto, eh?” disse mia madre, leggendomi l’espressione che avevo in faccia.

“No Mamma, stai meglio.”

Mia madre sorrise. “Ti svelo un segreto, Cali. Riesco a capire quando dici una bugia. Una madre lo sa sempre,” disse enfatizzando il suo lieve accento giamaicano.

Era vero? Riusciva a capire quando stavo mentendo? Questa volta stavo davvero dicendo una bugia.

“Mamma, come è successo?”

Un velo di tristezza coprì gli occhi di mia madre. Lo stesso velo di quando io tiravo fuori il discorso dei miei fratelli appena ritrovati.

“Ha qualcosa a che fare con mio padre?”

Mi guardò, fissandomi negli occhi.

“È così, non è vero?”

“Non lo so. E nemmeno tu, quindi non c’è motivo di chiedere.”

“Di cosa stai parlando? Qualcuno mi ha detto che la tua macchina è stata tamponata da dietro. Avresti potuto essere uccisa. Ti ho quasi persa. Se sei ancora in pericolo, devo saperlo. Se qualcuno sta cercando di farti del male a causa mia…”

Mamma prese le mie mani fra le sue. Mentre la guardavo, tutto quel che riuscivo a vedere erano i tubi attaccati alle sue braccia.

“Quel che è successo è stato un incidente. Tutto qui.”

“E se non lo fosse? Devi dirmi chi è mio padre. Se è qualcuno di pericoloso, devo saperlo. Titus, Claude e io lo dobbiamo sapere.”

Per la prima volta da quando avevo scoperto che c’era di più riguardo il mio passato di quel che non mi fosse stato detto, mia madre mi guardò con compassione. Speravo che questo sguardo fosse seguito da una spiegazione. Ma non fu così.

“Continuerai a non dire parlare anche dopo quel che è successo?”

“Cali, non c’è niente da dire.”

Per quanto fossi sollevato che mia madre sembrasse essere tornata sé stessa, ero di nuovo furioso con lei. Meritavo di conoscere la verità. Lei mi stava nascondendo una parte di quel che ero.

Forse sapere chi fosse mio padre avrebbe dato un senso a diverse cose su di me che non capivo. Volevo urlare a mia madre, ma non potevo. Non ora, né forse mai più.

“Mi prenderò una pausa dalla scuola per occuparmi del bed and breakfast,” le dissi, cambiando argomento.

“No!” mi rispose con forza.

“Che cosa vuol dire no?” Ci sono ospiti che stanno soggiornando. Ora che gli affari stanno iniziando a girare, dobbiamo pensare alle recensioni.”

“Promettimi che questo non avrà un peso sul tuo rendimento scolastico.”

“Pensi che in questo momento mi interessi della scuola? Ma lo vedi dove ti trovi?”

“Promettimelo!”

“Mamma!”

“Ho detto di promettermelo. La tua educazione è importante. Dovrebbe sempre essere al primo posto.”

“Non c’è niente di più importante che farti tornare in forze,” le spiegai.

Mi strinse la mano. “Grazie, ma i dottori qui si occuperanno di questo. Tu devi solo preoccuparti dei tuoi voti. Lascia che sia io a occuparmi degli affari.”

“Dici così, ma cosa puoi fare da questo letto?”

“Più di quel che pensi,” disse con un sorriso.

Guardai verso il basso, verso mia madre ricoperta di lividi ma che ancora pensava di poter fare di tutto e di più. Quella era la donna con cui ero cresciuto. Nemmeno essere caduta giù da un burrone profondo quaranta piedi l’aveva fermata. Sorrisi e mi arresi.

“Rimarrò a scuola. Ma devo prendermi una pausa, almeno per qualche giorno.”

“No, non lo farai.”

“Mamma, stai esagerando.”

“Promettimelo,” disse dolcemente ma con più peso di quello che una sola parola normalmente non avrebbe dovuto avere.

“Te lo prometto,” le risposi, ben sapendo che lei era maestra nel fare l’impossibile. Ora avrei dovuto capire come fare lo stesso.

 

 

Capitolo 3

Hil

 

“Okay Hil, devi dirmi dove sei,” implorò Dillon.

“Ti ho detto che sto bene,” risposi, dando un’occhiata in giro per la stanza a tema football di Cali.

“Lo dici tu, ma io come faccio a sapere se è la verità? Detto dalla stessa persona che aveva informato tutti di non essere disponibile solo per alcuni giorni e che poi è sparita nel nulla per più di una settimana. Questa ti sembra una persona di cui mi potrei fidare?”

Per quanto non lo volessi ammettere, Dillon aveva ragione. Mi ero comportata  molto male. Me n’ero andata senza dire a nessuno dove stessi andando né quando sarei ritornata.

Non mi pentivo di averlo fatto perché era l’unico modo in cui avrei potuto andarmene. E se mio padre oppure mio fratello l’avessero contattata? Dillon era una pessima bugiarda. Se lei avesse saputo, anche loro avrebbero saputo che lei sapeva, e glielo avrebbero eventualmente tirato fuori con la forza.

Stavo mantenendo Dillon al sicuro non dicendogli che stavo per… anche se mi avrebbe ucciso sapere che lei pensava di non potersi più fidare di me, e la fiducia di Dillon era tutto per me.

“D’accordo,” dissi, crollando al solo pensiero di poterla perdere come amica. “Ti dirò dove sono, ma senza darti dettagli.”

“Mi conosci, mi accontenterò,” disse Dillon, riferendosi in modo scherzoso alla sua vita amorosa.

Io risi.

“Al momento sono nella camera di un bellissimo giocatore di football e sono comoda sotto le sue lenzuola.”

Ci fu una pausa all’altro capo del telefono, seguito da uno squillante, “Cosa?”

Non riuscii a fermare il sorriso che si stava allargando sul mio viso

“Sì, sto guardando tutta la sua attrezzatura da football proprio ora,” dissi, esaminando l’equipaggiamento che era stato impilato a casaccio in un angolo della camera.

“Oh, adesso mi devi dire dove ti trovi.”

“Ti ho detto che sto bene.”

“Mh, sembri stare più che bene.”

“Forse,” dissi con le labbra ancora incurvate.

“Ma non capisco. Ieri mi hai detto di avere quasi ucciso qualcuno, forse.”

Ricordando come mi ero sentita mentre aspettavo Cali in ospedale, il sorriso mi si cancellò dalla faccia.

“Sì. È successo anche questo.”

“Come avresti quasi ucciso qualcuno?” chiese Dillon pacato.

“Avrei dovuto sbarazzarmi della macchina della mia famiglia non appena ho incrociato per la strada il primo concessionario di auto a noleggio.”

“E comunque Hil, quando hai preso la patente?”

Dillon sapeva la risposta a quella domanda. Non l’avevo presa. Non solo eravamo cresciuti entrambi a New York City, ma avevo anche un autista che mi portava dovunque io avessi bisogno di andare. Una volta a destinazione, il mio autista si trasformava nella mia guardia del corpo. Quello non era un modo sano di crescere.

Anche se ad essere sinceri mi ci vollero meno di due settimane da sola prima che qualcuno facesse uscire di strada la mia macchina. Stavo commettendo un terribile sbaglio a non avere nessun tipo di protezione? Stavo firmando il mio certificato di morte correndo via dalle persone che erano pagate per proteggermi?

Non volevo pensare a tutto ciò in quel momento. Ne ero uscita e volevo sfruttare al massimo questa occasione. Avevo bisogno di capire come fare per costruirmi una vita.

Remy ne aveva una, e in quanto primogenito di mio padre lui era molto più in pericolo di me. Mio padre però non lo obbligava ad avere una guardia del corpo. Lui poteva fare quel che preferiva. Ero solo io quella che pensava non se la potesse cavare. Dovevo dimostrargli il contrario. Dovevo mostrargli che potevo farcela da sola.

“Remy ha chiesto di nuovo di me?”

“Dall’ultima volta che abbiamo parlato?”

“Remy sa essere insistente.”

Dillon rise. “Mi piacerebbe. Non so se lo sapevi, ma tuo fratello è stupendo. Potrebbe scrivermi quando vuole e ottenere tutto quello che desidera.”

“E questo è il motivo per cui non ti posso dire dove mi trovo,” dissi, delusa. “E comunque, che schifo.”

Dillon non rispose.

Ero sempre stata insicura quando si trattava di Remy. Io e lui non ci somigliavamo per niente. Non solo lui si era preso tutta l’altezza, ma dalla natura aveva anche ricevuto muscoli, e i tatuaggi. Io ero solo la sua piccola sorellina delicata che aveva bisogno di qualcuno che le facesse tutto. Lo odiavo. Avrei dato qualsiasi cosa perché non fosse vero.

“Devo andare,” dissi a Dillon, perdendo entusiasmo per la telefonata.

“Andare a fare cosa?” chiese, cercando di scoprire di più.

“Ad essere sinceri, non lo so. Per ora sono incastrata qui. Forse farò colazione. Da lì mi inventerò qualcosa.”

“Voglio che mi chiami ogni giorno per sapere se stai bene. Se non vuoi che io dica a Remy che ti ho sentito, devi fare almeno questo per me.”

“Ti chiamerò,” le promisi, cercando di nascondere quanto fosse importante per me che a lei importasse.

“E lo sai che mi dovrai dare molti più dettagli su questo giocatore di football, vero?”

Sorrisi.

“Non appena avrò qualcosa da condividere, sarai la prima persona con cui parlerò, credimi.”

“Cerca di fare attenzione,” disse con abbastanza sincerità da farmi capire quanto fosse davvero preoccupata per me.

“Te lo prometto,” dissi, chiudendo la chiamata e guardandomi attorno.

Che cosa avrei fatto durante la giornata? I giorni precedenti avevo fatto un giro in macchina per raggiungere l’imbocco di vari sentieri da trekking che la Dottoressa Sonya mi aveva consigliato. Non mi ero però davvero cimentata in quelle escursioni. Sarebbe stata una follia. Ma la vista dall’inizio dei percorsi era molto bella.

Tutto ciò però lo potevo fare quando avevo ancora un’auto. Avrei dovuto trovare un modo per rimediare. Ma come? Gli unici soldi che mi rimanevano erano alcune centinaia di dollari nel mio portafogli. Non mi avrebbero aiutato molto a lungo. Non riuscivo a capire come tutta questa storia sarebbe potuta finire se non con me che tornavo strisciando dalla mia famiglia ammettendo di avere fallito.

Forse sarebbe stato inevitabile, ma non avrebbe dovuto accadere per forza oggi. Quello che volevo accadesse subito invece era la colazione. Forse l’avrei trovata pronta al piano di sotto.

Preparandomi alla possibilità di incontrare il bellissimo ragazzo che aveva dormito a sole due camere di distanza, uscii dalla mia stanza e andai verso la cucina. Attraversando il salotto, notai le stesse due coppie che erano lì la sera in cui ero tornata dall’ospedale.

“Scusami, anche tu alloggi qui, giusto?” mi domandò un uomo magro e capelluto quanto un grizzly, con camicia di flanella e scarpe da escursione.

“Sì. Avete fatto check-in la sera scorsa, giusto?”

“Sì. Sai se ci dovrebbe essere la colazione inclusa nel soggiorno?” mi chiese, facendomi realizzare una cosa.

Il ragazzo stupendo aveva detto che quel giorno sarebbe uscito presto per andare in ospedale. Considerando che ci andava per vedere sua madre, e che sua madre era quella che si occupava della colazione, la cucina sarebbe stata vuota.

“Sì, c’è, e di solito è ottima. Ma…” i miei occhi guizzarono in giro per la stanza alla ricerca di ispirazione su cosa avrei dovuto dire.

“Ma?” continuò l’uomo.

Lo guardai e mi venne in mente un’idea

“Ma potrebbe essere un po’ ridotta questa mattina. Potete darmi un minuto? Vado a vedere a che punto è,” gli dissi, entusiasta della mia idea.

Lasciai il gruppo in sala ed entrai in cucina. Mi guardai attorno e non notai nulla di troppo minaccioso. Non avevo forse visto il nostro chef a casa cucinare centinaia di volte? Avrò pur imparato qualcosa di quel che avevo visto, no? Quanto poteva essere difficile preparare una colazione?

Aprii il frigorifero ben fornito e guardai al suo interno. C’era tutto lì dentro. Sembrava abbastanza cibo da poter sfamare un esercito. Era sconvolgente.

“Uova,” dissi ricordando la delizia strapazzata che la Dottoressa Sonya aveva preparato per me la mattina precedente.

Ne presi una e la guardai, poi ne presi un’altra. Quelle erano decisamente uova, non c’erano dubbi. E per qualche motivo quel che c’era dentro veniva cucinato e messo su un piatto con del contorno.

Che stavo facendo? Non sapevo come fare le uova strapazzate. Non sapevo nemmeno come bollire un uovo. Se fossi stata lasciata sola in una cucina ben fornita per una settimana, sarei probabilmente morta di fame.

“Sai se sarà pronta presto?” mi domandò il ragazzo dai capelli arruffati, facendo capolino dalla porta della cucina. “Abbiamo un’escursione programmata fra un’ora. Ci stavamo chiedendo se non fosse più comodo per noi fare colazione al bar in fondo alla strada.”

“No, non dovete andare da nessun’altra parte. La colazione arriverà fra un secondo. Vi farò sapere quando sarà pronta,” risposi, nascondendo il mio terrore dietro un sorriso. Ero sicura che non l’avesse notato.

Quando se ne andò con uno sguardo dubbioso, ritornai alla missione impossibile di fronte a me e cercai di non andare nel panico.

Chiusi gli occhi e presi un bel respiro.

“Puoi farcela Hil. Non deve essere una cosa elaborata, deve solamente essere qualcosa che somigli a una colazione.”

Con una nuova missione, rimisi le uova nel loro contenitore dentro il frigorifero. Le uova strapazzate erano per qualcuno di livello medio. Io ero una principiante. Quindi mi guardai attorno, cercando idee per qualcuno alle prime armi.

In fondo alla mensola c’erano alcuni pasticcini di Marcus.

“Una colazione continentale?” pensai, ricordando alcuni dei miei viaggi in Francia.

Presi i croissant e aprii tutti gli armadietti finché non trovai i piatti. Sistemandoli al meglio che potessi, mi misi a cercare un coltello e il contenitore del burro che la Dottoressa Sonya mi aveva portato nelle scorse mattine.

“Eccolo,” dissi, sollevata.

C’ero quasi, ma avevo bisogno di qualcos’altro.

“I cereali!” esclamai, non sapendo perché non ci avessi pensato prima.

Frugando fra gli armadietti, trovai due scatole di cereali. Le avrei portate entrambe al gruppo. Presi latte e scodelle, portai tutto oltre le porte a battente verso la sala da pranzo e disposi ogni cosa sul tavolo. Ritornai pochi secondi dopo con i croissant, chiamai il gruppo e guardai con agitazione le loro facce.

Non sembravano troppo delusi. Avrei dovuto considerarla una vittoria? Voglio dire, ero riuscita a capire come sfamare quattro persone. Tecnicamente avrei potuto essere considerata un aiuto al sostentamento della vita.

“Grazie,” mi disse il capo gruppo prima che tutti si sedessero e addentassero il cibo.

Non riuscendo a contenere la mia felicità, dissi “Fatemi sapere se avete bisogno di altro,” e ritornai in cucina.

Era difficile per me esprimere quanto mi sentissi bene ad essermi occupata di questo compito. Forse non ero così inutile come tutti credevano. Forse sarei riuscita a farcela. Il problema non era che tutti fossero più intelligenti di me. Era che nessuno mi aveva mai dato una possibilità. Non avevo mai dovuto nemmeno provarci. Ma se l’avessi fatto, sarei stata all’altezza?

Aspettai in cucina che le coppie se ne andassero e ritornai in sala da pranzo con un piano. L’entusiasmo mi fece formicolare tutto il corpo. Si trattava di qualcosa che neanche immaginavo di fare fino a pochi giorni prima. La domanda era, come si lavano i piatti?

Guardai in giro e vidi una bottiglia di detersivo. Mi chiesi come funzionasse e ne versai un po’ sulle ciotole. Le strisce verdi e fluorescenti rimasero lì. Non ero sicura di cosa avrei dovuto fare.

Trovai una spugna in fondo al lavandino e rivisitai il piano. Era come farsi un bagno, giusto? Solo con i piatti. Non era tanto più difficile, no?

Quando finii di lavare le stoviglie, misi tutto sullo scolapiatti e guardai con piacere il mio operato. Avevo lavato per la prima volta i piatti. Non era davvero così difficile. Ma più di questo, provavo un senso di soddisfazione che raramente avevo sentito. Ero davvero più capace di quel che tutti pensassero.

Doveva pur valere qualcosa, giusto? Fu in quel momento che pensai a Dillon. Sua madre era stata la nostra governante. Se c’era qualcuno che poteva capire, era lei.

 

 

“Come si gestisce un bed and breakfast?” chiesi alla mia amica.

“E io come faccio a saperlo? Non sono mai stata in un bed and breakfast. Hai dimenticato che non sono mai uscita dal New Jersey?”

“Lo so” risposi, sentendomi in colpa. “È solo che…”

“… mia madre è una governante?”

“No!”

“Sul serio Hil?”

“Okay. È stata una brutta idea da parte mia?”

“Non è stata bella.”

“Scusa.”

“No, è tutto a posto. Mi sa che sono solo sensibile. Tutti a scuola si comportano come se avessero soldi da sprecare. Continuano a invitarmi a fare cose che mai potrei permettermi.”

“Se hai bisogno che ti mandi più soldi…” le dissi, sentendomi in colpa.

“Non è quel che ho detto, Hil. Per favore, comportati da migliore amica.”

Deglutii, pensando a quante volte avevo detto cose inappropriate. Volevo essere di supporto. E non era forse con il denaro che i miei genitori mostravano di volermi bene? Aspetta. Mi stavo forse comportando come i miei genitori? Oddio.

“Hai ragione Dillon. E fa schifo. Ma ti conosco, sei probabilmente la ragazza più brava lì dentro. Sei la persona migliore che conosca.”

“E se io non fossi l’unica ragazza che conosci, quel che hai appena detto mi renderebbe molto felice, Hil,” disse Dillon, sembrando quasi sincera.

“Dai, sai che intendo dire,” risposi con una risata.

“Vuoi dire che mi vuoi bene, l’avevo capito. E ti voglio bene anch’io.”

Mi presi qualche secondo per riflettere su quanto fossi fortunato ad avere Dillon nella mia vita prima che i miei pensieri ritornassero al mio brillante piano.

“Quindi, pensi che tua madre sappia come poter gestire un bed and breakfast?”

Mentre Dillon mi faceva un elenco di tutte le ragioni per le quali non le avrebbe chiesto nulla al riguardo, io feci una lista che rispondeva alle mie domande. La maggior parte delle risposte era un semplice: sii fantastica. Quanto poteva essere difficile?

Per le ore seguenti, chiacchierai con Dillon. Quando lei attaccò il telefono per andare a lezione, mi misi a camminare per casa, piena di energia. Continuai a sentirmi così finché Cali non ritornò. Sentendo la porta dell’ingresso aprirsi, corsi giù per le scale per venirgli incontro. Sembrava stupito dalla mia presenza mentre scendevo le scale. Mi fissò con uno sguardo combattuto. Io mi bloccai.

“Tua madre sta bene?” gli chiesi, sentendo un nodo in gola.

“Sta meglio, grazie,” mi rispose prima di superarmi e dirigersi verso le scale.

“Aspetta, ti posso parlare un momento?” dissi, attirando la sua attenzione. Il modo in cui i suoi occhi impassibili si fissarono sui miei quando si girò, mi fece tremare le ginocchia.

“Che c’è?” mi chiese con tono burbero.

Sapevo quanto fosse un momento difficile per lui, quindi cercai di non prenderla sul personale. Ma mi fece anche pensare a che aspetto avrebbe avuto se avesse sorriso.

Riprendendosi, abbassò la testa con un’espressione dispiaciuta.

“Mi dispiace, ho solo un sacco pensieri per la mente.”

“Non c’è problema. Hai molto di cui preoccuparti. Il che è proprio ciò di cui ti volevo parlare.”

Si girò, guardandomi incuriosito. Mi sentii avvampare per il modo in cui mi guardava. Fu sufficiente per iniziare a farmi fantasticare su di lui. Misi da parte queste riflessioni per il momento, presi un respiro, raccolsi le mie energie e gli chiesi di seguirmi.

Lo portai in cucina e gli mostrai i piatti che avevo lavato.

“Allora, questa mattina gli altri ospiti hanno chiesto della colazione.”

“Oh cavolo!”

“Non ti preoccupare, me ne sono occupata io.”

“Te ne sei occupata tu?”

Sorrisi. “Sì, ho offerto loro alcuni croissant che stavano nel frigo e dei cereali. Lo so che non è quel che di solito prepara tua madre, ma sembravano soddisfatti. Ed è stato un compito di cui tu non ti sei dovuto preoccupare.”

Cali mi guardò senza dire una parola.

“Ho fatto bene?”

“Sì, certo. Mi dispiace solo che abbia dovuto pensarci tu, era una mia responsabilità.”