LA MIA DEBOLEZZA

Capitolo 1

Kendall

 

 

Quante volte vi è capitato di mettere qualcosa dentro la bocca e pensare subito dopo, “Non ha un buon sapore… come faccio a mandarlo giù?” E poi lo fate lo stesso, ed immediatamente ve ne pentite. Ma pochi secondi dopo dimenticate di esservene pentiti, e ne prendete ancora?

Beh, io avevo fatto proprio la stessa cosa la notte prima, e ne stavo pagando le conseguenze quella mattina. Come fa la gente a bere whiskey senza alcun problema? Sa di polvere, e ha la stessa consistenza della lava. Avrei dovuto tenerlo in bocca il tempo necessario per poi sputarlo quando nessuno se ne sarebbe accorto. A nessuno importa davvero se ingoi, no? Importa solo che ci hai provato.

La notte scorsa sarebbe stata l’ultima. Sì, lo so che è un cliché sentire la gente con i postumi da sbronza dire che non berranno mai più, ma io ero assolutamente seria. Non lo avrei fatto mai più; niente più vino, niente più whiskey, diavolo, niente più birra! La mia relazione con l’alcool era giunta al termine. E, già che c’ero, avrei anche dovuto capire qual era il mio problema con i rumori forti e il sole.

«Potresti smetterla, per favore?» dissi alla mia compagna di stanza, Cory, prima di gemere di dolore e girarmi dall’altro lato, ancora sul letto.

«Mi sto… mettendo i pantaloni» rispose Cory, confusa.

«E non puoi farlo in maniera più silenziosa?»

«Quanti modi esistono di infilarsi i pantaloni?»

Mi lamentai un’altra volta. «Non mi sento molto bene.»

«Vuoi che ti porti un bicchiere d’acqua o qualcos’altro? Sto andando a prendere qualcosa da mangiare. Vuoi che ti porti una ciambella?»

La mia mente andò subito a una di quelle ciambelle piene di crema gialla e quasi vomitai sul letto. Cosa stava cercando di fare Cory? Uccidermi, per caso? La stanza del nostro dormitorio non era neanche così tanto grande; voleva forse averla tutta per sé? Gemetti un’altra volta, e poi mi raggomitolai in una palla di dolore.

Cory restò in silenzio per qualche momento prima di sedersi sul bordo del mio letto. Le sue dita strisciarono tra i miei capelli e presero a grattarmi la mia nuca per farmi rilassare. La sensazione era così bella da farmi quasi dimenticare quanto non mi piacessero le ragazze. A essere sincera, non mi piacevano neanche i ragazzi. In generale, la gente era il mio problema.

Tuttavia, la verità era che, se non consideravamo quanto rumorosamente metteva sempre i pantaloni, Cory era una ragazza molto dolce. Era il tipo di persona che mi faceva ritrovare la fiducia nell’umanità. Non completamente, certo, perché… si sa com’è, la gente..

Dopo anni di convivenza insieme a lei, avevo cominciato a pensare che gli esseri umani non sono poi così sgradevoli, o almeno alcuni di loro. Inoltre, starle intorno mi aveva fatto desiderare di intraprendere più interazioni umane. Infatti, l’altra notte avevo persino lasciato la mia stanza per andare alla ricerca di altre persone con cui parlare. Io, Kendall Seers, ero andata a una festa del campus. E non avevo più dubbi: a quanto pareva, Cory aveva un ascendente negativo su di me.

Era un peccato che mi piacessero i ragazzi e molti di questi erano dei grandissimi stronzi. Quelli che non lo erano mi trattavano comunque come la stramba che sono sempre stata. Non mi dispiaceva neanche il fatto che non mi consideravano su un lato sessuale, perché il sentimento era reciproco.

Voglio dire, non avevano nulla che non andava. Ma il pensiero di baciare un ragazzo? Diciamo soltanto che non sarebbe mai accaduto.

«Mi pare di capire che hai passato una bella serata, ieri»

«Veramente neanche me la ricordo, la serata di ieri» ammisi io.

«Hai perso conoscenza?»

«Sì», risposi, nascondendo il viso nel cuscino.

«Wow… brutta storia» disse, grattandomi ancora una volta la nuca.

Quella ragazza aveva mani magiche. Se fossi stata un cane, probabilmente la mia gamba avrebbe già cominciato ad agitarsi freneticamente. Nonostante non mi piacessero le donne, se avesse deciso di infilarsi sotto le coperte per stringermi tra le sue braccia, io non avrei fatto obiezione.

Non l’avrebbe fatto, però. Perché, oltre ad essere etero esattamente come me, era anche una delle ragazze più serie che avessi mai conosciuto. Anche se innocente, sicuramente avrebbe considerato il gesto alla stregua di un tradimento nei confronti del suo ragazzo. Quella ragazza era una bravissima persona. Ed io avrei probabilmente passato il resto della mia vita a cercare un ragazzo gay che fosse perfetto quasi quanto lei.

«Posso chiederti una cosa?» mi chiese Cory, in tono serio.

«Vuoi chiedermi di sposarti? Se prometti di continuare a grattarmi la testa come stai facendo in questo momento, allora la risposta è sì.»

Cory ridacchiò. «Lo terrò a mente. Però non era questa la domanda.»

«Ugh» risposi, delusa.

«Mi chiedevo soltanto perché tu abbia un pezzo di carta attaccato alla maglietta.»

«Cosa?»

Cory spostò le sue dita magiche dai miei capelli e mi tirò via qualcosa dalla maglia. Era la stessa che avevo messo la sera prima, per uscire. E fino a quando non avevo perso conoscenza, dimenticandomi di tutto quello che era successo dopo, quel pezzo di carta non era stato lì. Dovevano averlo messo dopo. Ma chi? E perché?

Mi girai per poterlo guardare, e lo presi tra le dita. Immediatamente, ci vidi delle parole scritte sopra.

«È scritto… sottosopra?» dissi, sentendo i residui del whiskey girovagarmi ancora per il cervello.

Cory ridacchiò un’altra volta. «Lascia che lo legga io.»

Prese il biglietto un’altra volta, e lesse ad alta voce. «Willow Pond, alle due del pomeriggio. Che cosa vorrà dire?»

Che cosa voleva dire? Conoscevo il Willow Pond. Era il mio posto preferito, al campus. Ci andavo sempre quando avevo bisogno di un momento per pensare. Ma cosa dovevo andarci a fare alle due del pomeriggio?

Ero sul punto di girarmi verso Cory per chiederle se per caso non avesse letto male, quando un’immagine mi balenò improvvisamente nella testa. Un ragazzo di stazza incredibile e dal fisico meraviglioso che si sporgeva verso di me.

«Oh mio Dio! Ho baciato un ragazzo!» urlai immediatamente.

Ma fu troppo veloce, troppo improvviso, perché insieme alle parole venne fuori anche tutto quello che avevo consumato la sera prima. Se la nostra stanza non fosse stata così vicina al bagno, probabilmente non ce l’avrei mai fatta in tempo. Ma, quando tornai in camera, mi sentii come una tigre pronta a cacciare. E quella sensazione durò un massimo di trenta secondi, prima che ricordassi che il sole era ancora alto nel cielo ed io lo odiavo ancora con tutte le mie forze. Dovetti tornare sotto le coperte un attimo dopo.

Inutile dire che il ricordo di aver baciato qualcuno per la prima volta in vita mia era un po’ uno shock. Non ero mai stata una ragazza popolare.

Quando ero ancora al liceo, avrei potuto dare la colpa al fatto che avevo sempre rifiutato attivamente qualsiasi aspettativa di femminilità che mi veniva imposta crescendo al sud. Ma perché, adesso che ero all’università, non era cambiato niente?

L’università dell’East Tennessee non era come la periferia di Nashville. La smania di conformarsi non era la stessa, lì. Ecco perché non avevo cercato così tanto di adattarmi. In giro per il campus, avevo persino visto qualche ragazzo vestito come me. Eppure, mai una volta mi ero impegnata con uno di loro oppure avevo trovato l’anima gemella una volta smesso di cercarla, come dice sempre la gente.

Non fraintendetemi: aver dato il mio primo bacio non era un problema così grave, né nulla di simile. Mi chiedevo soltanto come mai fosse accaduto soltanto dopo essermi ubriacata di brutto. Sapevo che l’alcool togliesse i freni inibitori, ma questo cosa diceva di me e di ciò che volevo davvero?

«Stai bene?» mi chiese la mia compagna di stanza, preoccupata.

 

«Penso di aver baciato un ragazzo.»

«Ho sentito, sì. Ma chi?»

«Non lo so.»

«Come fai a non saperlo?»

«Perché, al contrario tuo, molti di noi fanno scelte parecchio discutibili, e si ritrovano a fare cose con completi sconosciuti che non riescono neanche a ricordare, a quanto pare», spiegai.

«Anche io faccio brutte scelte, a volte.»

«Ma certo che sì, Miss sono-praticamente-sposata-da-quando-avevo-diciassette-anni. Probabilmente non hai neanche idea di cosa sia, una brutta scelta.»

«Non sono perfetta.»

«Sì, certo, okay.»

«Ah, lascia perdere. Pensi che il ragazzo che hai baciato sia lo stesso che ti ha lasciato questo biglietto?»

Mi misi a sedere. «Adesso sì.»

«Quindi… questo sarebbe, tipo, un invito?»

«Un invito a vederci nel mio posto preferito alle due del pomeriggio?»

«Sì», disse Cory, con crescente entusiasmo. «Mi sembra molto romantica, come cosa.»

«Romantica?» le chiesi, come se stesse parlando un’altra lingua. «Beh, forse. Sai, se ti piace questo genere di cose…»

«Ti ricordi nulla in particolare del ragazzo?».

Passai in rassegna i miei ricordi. «L’unica cosa che ricordo è lui che si sporge verso di me. Solo questo.»

«Che ne dici dell’angolazione in cui si è sporto? Veniva verso di te lateralmente? Oppure si chinava verso il basso?»

«Si chinava. Ed era enorme. Questo me lo ricordo.»

«Intendi… incredibilmente grande, o semplicemente più grande di te?»

«Penso che lui fosse decisamente grande. Nel senso che ricordo avesse delle grandi mani.»

«Grandi mani…» ripeté Cory, in maniera suggestiva.

«Cosa?» chiesi, arrossendo.

«Così, per dire.»

Cory sorrise.

«Okay, ragazzaccia, stai calmo. Non conosco nulla di questo ragazzo. Per ciò che ne possiamo sapere, potrebbe essere grande perché non era nient’altro che una statua con cui mi sono ritrovata a passare la serata in modi inappropriati nel mio stato alterato.»

«E pensi sia stata quella stessa statua a lasciarti un biglietto con su scritto un posto e un orario?»

Ci pensai un attimo. Beh, certamente Cory aveva ragione. Chiunque avesse lasciato quel bigliettino, doveva essere umano. Il ragazzo che avevo baciato era reale, fatto di carne, di sangue. Significava forse che, la sera prima, avevo incontrato un ragazzo che mi piaceva e che, magari, ricambiava il mio interesse? Non che mi interessasse, ma…

«Kelly ed io andiamo a fare una passeggiata per il bosco, quindi devo andare a prendere la colazione adesso. Ma tu andrai all’appuntamento… vero?»

«Intendi dire se andrò a incontrare lo sconosciuto che avrebbe potuto chiedermi di uscire per uccidermi?»

«No, intendo dire se andrai dal ragazzo che ti ha baciata sotto le stelle, e ti ha lasciato un indizio per vederlo un’altra volta.»

La vidi alzarsi dal letto per afferrare le chiavi e il portafogli.

«Kendall… per quante volte tu mi abbia detto quanto non ti piacciono le persone, non puoi non andarci. Pensaci: hai incontrato qualcuno che ti è piaciuto così tanto da dargli il tuo primo bacio. Indipendentemente da quanto fossi ubriaca, non l’avresti fatto se non lo avessi considerato speciale. Chissà, potrebbe essere il ragazzo con cui passerai il resto della tua vita.»

«Sì, perché mi ucciderà e mi lascerà a marcire dentro lo stagno.»

Cory scoppiò a ridere. «Okay, fai quello che vuoi. Ma se, quando tornerò a casa stasera, scoprirò che non sei andata all’appuntamento, ne resterò veramente molto delusa.»

«Okay, mamma.»

«Bravo bambina» disse Cory, prima di inginocchiarsi di fronte al letto e lasciarmi un bacio tra i capelli.

Dio! Cory ci sapeva davvero fare, con le parole. Ma basta parlare della ragazza che stava andando via per vedere il suo ragazzo.. Era arrivato il momento di pensare a chiunque fosse stata la persona che mi aveva lasciato il bigliettino sulla maglietta, piuttosto. Dovevo ammettere che era stato romantico, come gesto. Si era reso conto, ieri sera, che non ero in me? Che non avrei ricordato nulla della notte precedente? E, forse per questo, aveva deciso di lasciarmi un biglietto per poterci rivedere? Doveva essere questo il motivo. Non che aveva preferito un pezzo di carta perché la polizia sarebbe facilmente risalita al suo numero di telefono, in caso di omicidio? Beh, per ciò che ne sapevo, potevano essere possibili entrambe le ipotesi.

Sentendo le forze tornare piano piano, presi a cercare il telefono dentro le tasche dei miei jeans. Quando non lo trovai, provai sul comodino; non era neanche lì, e nemmeno sul pavimento nei pressi del letto. Mi ero ubriacata così tanto da perdere addirittura il telefono?

Dio santo! Ottocento dollari di telefono che, tra l’altro, stavo ancora pagando! Non avrei mai più bevuto, era una promessa. Fortuna che, oltre la mia famiglia, l’unica altra persona che conoscevo era la mia compagna di stanza. Almeno non avrei avuto tanta gente a cui dire che avevo perso il telefono: viva l’anonimato.

Sentendo improvvisamente il bisogno di mettere qualcosa sotto i denti, ad un certo punto raccolsi le poche forze che avevo e mi feci strada verso la caffetteria, riempiendo il mio vassoio di cose da mangiare. Non avevo idea di cosa sarei riuscita a sopportare, perciò presi piccole porzioni di tutto. Avevo deciso che avrei sperimentato piano piano. Quando alzai lo sguardo dal mio vassoio, un ragazzo che conoscevo mi vide e mi fece cenno di avvicinarmi; io però gli feci capire che non avrei raggiunto lui e il suo gruppo, perché non sarei stata in grado di sostenere una conversazione, nello stato pietoso in cui versavo.

E poi, volevo passare il tempo che mi restava a cercare di ricordare quanto più possibile di ciò che era successo la sera prima, prima che si facessero le due del pomeriggio. Non avevo la minima idea di che aspetto avesse il ragazzo. Come avrei fatto a capire di avercelo davanti? Come potevo sapere di non avere i suoi occhi addosso in quel preciso momento?

Alzai lo sguardo, scannerizzando la stanza. C’erano tantissime persone. Molti di loro erano impegnati in conversazioni accese, oppure avevano lo sguardo abbassato sul proprio piatto. C’era solo un ragazzo i cui occhi non mi avevano ancora lasciato. Dopo un momento, lo vidi alzarsi dal tavolo e avvicinarsi a me.

«Ehi, Kendall. Hai visto il mio messaggio, riguardo il gruppo di studio? Ti vuoi unire?» mi chiese, un po’ in imbarazzo.

Lo conoscevo. Era il ragazzo con cui seguivo psicologia, e che avevo beccato più di una volta a fissarmi. Non ero mai riuscita a capirne il motivo; avevo qualcosa sul viso che lui non riusciva a smettere di guardare? Oppure c’era sempre qualcuno dietro di me, e lui mi guardava per questo?

«Penso di aver perso il telefono» gli dissi, prima di asciugarmi la bocca per riflesso.

«Davvero? Dio, mi dispiace.»

«Non dirlo a me.»

«Hai bisogno di salvare di nuovo il mio numero, allora?»

«Non ho dove salvarlo.»

«Ah, giusto» disse, e dal suo tono mi sembrò deluso. «Comunque sia. Ci incontreremo al Commons, giovedì. Sarebbe fantastico se ti unissi anche tu.»

«Penso di avere già un impegno per giovedì, ma forse. Vedremo» gli dissi, perché non avevo alcuna voglia di andare.

«Oh, d’accordo. Fammi sapere, allora.»

Mi sorrise, poi, e tornò al suo posto con i suoi amici. Non potei fare a meno di trovarlo curioso. Quel ragazzo non faceva altro che chiedermi di unirmi a lui per una cosa o l’altra. Quanti eventi organizzava in una sola settimana?

Quando finii i pancakes, riuscii a sentirmi di nuovo abbastanza in forze da poter tornare nella mia stanza per prepararmi alla giornata. Le domeniche erano sempre particolarmente tranquille, nei dormitori: la maggior parte della gente ne approfittava per riprendersi dal sabato sera.

Sotto la doccia, mi persi ad immaginare chi potesse essere il ragazzo che aveva lasciato quel biglietto attaccato alla mia maglietta. E se Cory avesse avuto ragione, e quello si sarebbe rivelato il ragazzo della mia vita? Le probabilità erano davvero minime, eppure ce n’era sempre almeno una. 

Solo il pensiero mi fece venire i brividi. Come sarebbe stato, essere stretta tra le braccia di un ragazzo, dormire con lui? Come sarebbe stato, avere qualcuno con cui andare a letto? Non ne sapevo assolutamente nulla di quella roba.

L’unica cosa che sapevo per certo era che, chiunque sarebbe stato quel ragazzo, forse avrei dovuto fare il possibile per far andare bene le cose. Sì, molte persone erano davvero pessime ma ero stanca di essere sola. Non ero il mostro senza cuore che facevo finta di essere, indipendentemente da quanto ci provassi. Volevo scoprire cosa si provava ad essere innamorati.

Quando l’orario dell’appuntamento si avvicinò, e le farfalle dentro il mio stomaco cominciarono a farsi insopportabili, corsi a scegliere la maglietta migliore che avessi e un paio di jeans neri puliti. Portai sul polso il mio bracciale di pelle, mio inseparabile amico, e mi fermai di fronte allo specchio per osservarmi.

Ero magra, con un accenno di seno, e mi vestivo come un ragazzino goth che non si sforzava di abbinare bene i vestiti. Mi passai le dita tra i capelli ricci, portandoli indietro. Loro fecero un balzo e poi tornarono esattamente al posto di prima. Sì, non avrei potuto fare proprio alcun miracolo; non sarebbe andata meglio di così. Quel ragazzo sarebbe rimasto sicuramente deluso, quando mi avrebbe vista alla luce del sole.

Dopo un breve diverbio interno, mi decisi a lasciare la mia stanza e mi diressi verso il Willow Pond. Ero così nervosa che mi veniva difficile anche respirare. E se non fossi riuscita a riconoscerlo? Se lui mi avesse vista, avesse capito di aver fatto un errore madornale, e mi avesse semplicemente lasciata lì ad aspettare?

Il pensiero quasi non mi fece girare i tacchi e scappare via, ma non lo feci. Continuai a mettere un piede di fronte all’altro, fino a quando non vidi lo stagno. Il posto era praticamente vuoto. C’era soltanto un ragazzo, in piedi ad attendere di fronte allo specchio d’acqua, gli occhi sulle papere che nuotavano sulla superficie.

Poteva essere lui? No, era impossibile. Riuscivo a vedere nient’altro che la sua schiena, ma anche così riuscivo a capire benissimo che fosse ben oltre la mia portata. Perché quelle che avevo davanti erano spalle così larghe da poter sopportare il peso del mondo, e braccia così muscolose da poterlo spezzare in due.

I suoi capelli dorati sembrarono risplendere sotto la luce del sole. Quella sola vista mi fece perdere il respiro. Quando alla fine si girò e i nostri occhi s’incontrarono, fu proprio quello sguardo che fece scattare la molla. Era lui, il ragazzo della notte prima. Lo avrei riconosciuto ovunque.

Così, d’improvviso, tutti i ricordi vennero a galla. Ubriaca marcio, mi ero avvicinata a lui durante la festa, e gli avevo confessato che lo consideravo il ragazzo più bello che avessi mai visto. Mi aspettavo mi avrebbe detto di andare a quel paese, ma invece lui mi aveva chiesto come mi chiamassi, e avevamo passato il resto della serata a parlare.

Beh, per la maggior parte del tempo, io non avevo fatto altro che ripetergli quanto fosse sexy, e provato a baciarlo mentre lui mi allontanava, arrossendo. Oh, cazzo. Mi ero dimenticata di quella parte. Dio, che figura di merda.

Mi aveva baciata soltanto perché aveva pensato che non lo avrei lasciato in pace, altrimenti. Però poi aveva anche scritto un bigliettino e lo aveva messo sulla mia maglietta, dicendomi che, se fossi stata ancora interessata, allora ci saremmo rivisti l’indomani.

Sono certa che si fosse comportato così soltanto per galanteria. Doveva aver visto quanto ubriaca fossi, e non aveva voluto approfittarsene. Ma come può un ragazzo così bello essere anche così premuroso? C’era decisamente qualcosa che non andava, in lui.

«Kendall! Sei venuta!» disse sorridendo, e nel suo tono ci sentii un accento del Tennessee.

Oh, Dio. Si ricordava il mio nome. E il suo qual era?

«Certo che sì» dissi, fermandomi poco lontano da lui. «Non mi sarei lasciata scappare l’occasione…»

«Non ti ricordi il mio nome, vero?» scherzò lui.

«Certo, è…»

I miei pensieri presero ad attorcigliarsi insieme, confondendomi ancora di più.

«Va tutto bene. Eri parecchio ubriaca, ieri sera. Sono solo contento che tu abbia deciso di venire.»

«Il biglietto che mi hai lasciato ha aiutato molto. Me lo hai attaccato addosso.»

Lui rise. «Sì, beh… non volevo lo perdessi. Come il tuo telefono.»

«Allora ho davvero perso il telefono.»

«Sì. O, almeno, questo è quello che mi hai detto.»

«Ah, diamine. Avevo sperato lo avessi tu.»

«Perché avrei dovuto averlo io?» mi chiese, ancora sorridente.

«Era più che altro una speranza. Quindi… dovrò chiederti come ti chiami?»

«Oh. Avevo dimenticato. Mi chiamo Nero.»

«Kendall.»

«Mi ricordo.»

«Giusto. Devo essere onesta con te… non mi ricordo molto di ieri sera. Le uniche, poche cose che ricordo mi sono tornate in mente proprio un minuto fa. Mi dispiace…»

«Non fa niente. Cosa vorresti sapere di ieri sera? Io ricordo tutto.»

Ci pensai su per un secondo. «Ehm… ci siamo baciati?»

Nero rise. «Sì, ci siamo baciati.»

«Ed è stato… bello?»

«Per me, lo è stato. Molto.»

«Ed io stavo baciando te, quindi dev’essere stato bello anche per me.»

Nero arrossì.

«Cosa potresti avermi detto di te che adesso non ricordo?»

«Non penso di averti detto molto di me, in realtà.»

«Perché no?»

«Perché tu non mi hai chiesto nulla. Ma io ti ho chiesto molte cose su di te. So che vieni da Nashville.»

«Nata e cresciuta lì», confermai.

«So che sei al secondo anno di università.»

«Vero.»

«E so che sei la ragazza più carina che io abbia mai visto. Ma questo non ho avuto bisogno di sentirlo da te.»

Sentii le guance andarmi a fuoco immediatamente alle sue parole. Era una bugia bella e buona, eppure sentirglielo dire mi mandò una scarica elettrica per tutto il corpo, che sembrò depositarsi esattamente in mezzo alle mie gambe, riscaldandomi proprio .

«Anche tu sei molto bello» gli dissi, conscia di essere rossa come un peperone.

«Grazie!»

«Visto che tu sai così tanto su di me… immagino di dover chiedere anch’io qualcosa su di te.»

«Okay. Spara.»

«Da dove vieni?»

«Da un piccolo paesino a due ore da qui.»

«E a che anno sei?»

«Sono una matricola. Ho preso qualche anno sabbatico dopo il liceo.»

«E cosa stai facendo qui?»

«Beh, in questo momento sono qui per il football» disse, ridendo.

«Football?» ripetei io, ed improvvisamente la bolla di gioia e meraviglia in cui sembravamo essere stati racchiusi prese a sgonfiarsi. 

«Sì. Sono qui con una borsa di studio, quindi… in questo momento non faccio altro.»

Restai a fissare Nero sbalordita, la mia mente incapace di registrare altro di ciò che aveva detto dopo la parola “football”. Sentii il dolore stringermi il cuore, e fui costretta a fermarlo.

«No! Mi dispiace, no, non posso. Football? Oh, diamine, no!» dissi, facendo un passo indietro con un dito puntato contro di lui. Restai a fissarlo ancora un po’, notando i suoi occhi spalancarsi sempre di più dallo shock. Ma perché doveva essere proprio un giocatore di football?

«’Fanculo!» urlai, in preda alla frustrazione, poi mi girai e andai via, senza mai guardarmi indietro.

 

 

Capitolo 2

Nero

 

Ma cosa diamine era appena successo? Un secondo prima stavo parlando con la ragazza che avevo incontrato la notte prima, e le cose stavano andando per il meglio. Dentro di me, ero quasi certo che potesse essere quella giusta. E poi, di punto in bianco, aveva preso ad urlarmi contro e detto di andare a fanculo?

«Ma cosa diavolo è successo?» urlai a Kendall mentre continuava ad allontanarsi.

Kendall non rispose, né si girò a guardarmi. Una parte di me voleva correrle dietro, costringerla a dirmi cos’era successo, ma non l’avrei fatto. Quella reazione aveva forse a che fare con il football? Ma perché? Come?

Da quando ne avevo memoria, il football era quell’unica cosa che la gente amava di me, per la quale mi lodava. Anche chi mi odiava sembrava non provare tanto astio nei miei confronti quando entravo in campo. Dio santo, persino mia madre mi amava alla follia quando giocavo.

Per tanti anni mia madre non aveva fatto parte della mia vita. E non perché mi avesse abbandonato come aveva fatto mio padre, ma perché si era rintanata nel suo mondo. E gli unici momenti in cui sembrava riuscire a tornare nel mio, era durante i venerdì sera, quando giocavo.

Il football era ciò che univa me e il fratello che avevo da poco ritrovato, Cage. Il football era ciò che stavo usando per uscire dalla piccola cittadina nella quale ero cresciuto. Era tutto ciò che avevo di buono nella vita.

Eppure, la prima ragazza per cui provavo attrazione, la prima ragazza che mi aveva fatto battere il cuore solo con uno sguardo, sembrava odiarmi per questo? Non c’era modo di avere tregua!

Fermo immobile nel punto in cui Kendall mi aveva lasciato, i miei pensieri cominciarono a vagare incontrollati. Non era solo il fatto che Kendall mi aveva palesemente rifiutato; era anche tutto il resto, la mia vita in generale. Per una persona che aveva passato tutta la sua vita nella piccola cittadina di Snowy Falls, adattarsi alla vita frenetica di una grande città era difficile. Mi ci volevano tutte le forze per riuscire ad entrare in campo, avevo troppa pressione addosso. E alzarsi prima di chiunque altro al mondo e trovare la forza di correre intorno al campo così tante volte da arrivare al punto di vomitare era solo la punta di quell’iceberg.

La sera prima era stata la prima vera volta, da quando ero arrivato, in cui mi ero sentito davvero bene. Incontrare Kendall mi aveva fatto pensare di poter scappare dal mio passato e, forse, di riuscire ad avere un futuro diverso.

Ero stato il più educato e gentile possibile con lei. Avevo davvero provato a non rovinare le cose. Tutto di lei mi diceva che era la mia possibilità di essere felice come chi mi stava intorno. Ma quella possibilità era svanita nel nulla nel momento stesso in cui aveva deciso di puntarmi il dito contro e urlarmi, “Cazzo, no!”

Faceva male. Faceva davvero male. Avevo bisogno di cominciare a camminare, di allontanarmi da lì, altrimenti avevo come l’impressione che la mia testa sarebbe esplosa.

Allontanandomi dallo stagno, mi diressi verso la strada. Avevo preso la scorciatoia verso il campus ma, invece di dirigermi verso il mio dormitorio schifoso, decisi di correre nella direzione opposta. Avevo bisogno di andare via. Avevo bisogno di respirare.

I miei passi veloci si trasformarono presto in una vera e propria corsa. La mia mente prese a vorticare, perdendosi nei pensieri. Da Kendall, questi passarono agli ultimi ventuno anni della mia vita, che avevo passato a lottare per ogni singola cosa che avevo. Nessuno mi aveva mai dato nulla. Neanche mia madre.

Nel suo stato catatonico, io mi ero ritrovato costretto a trovarmi un lavoro. Qualcuno doveva pur assicurarsi che lei continuasse ad avere un posto dove dormire, e del cibo da mettere sotto i denti. Sin da quando avevo quattordici anni, l’unica persona su cui avevo potuto contare era me stesso.

La maggior parte del tempo, indossavo vestiti che erano di una taglia più piccola. Non potevo permettermi nient’altro. E quando i ragazzini, a scuola, avevano cominciato a farlo notare ad alta voce, io avevo preso a prenderli a pugni per farli stare zitti. E nessuno aveva più osato prendersi gioco di me, dopo quella volta.

Ero passato dal fare commissioni che avrebbero potuto uccidermi quando avevo quattordici anni, a scommettere tutto su me stesso e il mio corpo quando ne avevo venti. Avevo sempre fatto tutto ciò che potevo, per sopravvivere.

Se Cage non mi avesse trovato, se non mi avesse detto di essere mio fratello, probabilmente la mia vita sarebbe ancora esattamente quella di prima. Invece mi aveva presentato al suo coach di football dell’università, si era occupato di farmi ottenere una borsa di studio; mi aveva salvato da quel mondo.

Eppure, per quanto lontano io fossi arrivato, per quanta strada io avessi fatto, la prima ragazza per cui avevo cominciato a provare qualcosa, per cui avevo almeno pensato di poter provare qualcosa, ancora non mi reputava abbastanza. Forse quello era lo stesso motivo per cui mia madre si era ritrovata a lasciarsi andare dentro il suo stesso mondo invece di occuparsi di me; o il motivo per cui mio padre aveva deciso di abbandonarmi. Forse ero troppo difficile da amare. Forse non valevo nulla, e la cosa non sarebbe mai cambiata.

Quei pensieri presero velocemente a ingrandiarsi a dismisura. La testa cominciò a scoppiarmi, e sentii il cuore stringersi in una morsa. Mi sentivo sul punto di esplodere, avevo bisogno di lasciare andare quel dolore. Così feci l’unica cosa che ero in grado di fare: adocchiai la macchina parcheggiata più vicina a me, e mi lasciai andare.

Presi a calci la portiera dell’auto più forte che potei fino a quando il metallo non si piegò a causa dell’impatto; eppure, neanche quello fu abbastanza. Avevo bisogno di sentire il rumore di qualcosa di rotto. Così strinsi forte il pugno, e presi a colpire il finestrino. Per essere vetro, era certamente molto resistente. Continuò a non rompersi, e così colpii più forte fino a quando il vetro non si frantumò in mille, piccoli pezzi.

Per quanto il rumore fosse forte, ancora non era abbastanza. Tornai a prendere a calci la portiera fino a quando non fu abbastanza distrutta. Ero quasi sul punto di saltare sul tettuccio e romperlo, ma il forte rumore delle sirene sembrò riportarmi alla realtà, svegliandomi completamente. Come fossi stato intrappolato in un brutto sogno, dal quale non sarei riuscito ad uscire altrimenti.

La mia testa si liberò piano piano, e quando la vista sembrò schiarirsi, fissai ciò che avevo fatto. Avevo completamente distrutto una macchina. Mi ero lasciato andare, ed ecco cosa avevo fatto.

«Mettiti a terra!» urlò qualcuno dietro di me. «Ho detto a terra!»

Avevo rovinato tutto. Per questo mio scatto d’ira improvviso avrei perso la mia borsa di studio, l’unica possibilità che avevo per una vita migliore. Se fossi stato più intelligente, probabilmente avrei provato a scappare dall’agente che mi stava urlando di mettermi a terra. Ma non ne avevo neanche la forza.

Era stata colpa mia. Ero stato io a rovinare l’unica cosa buona che avessi mai avuto nella mia vita, io e nessun altro. Non c’era motivo di provare a scappare via dai miei disastri.

Quando non mi gettai a terra abbastanza in fretta, qualcuno mi ci buttò con forza da dietro. Caddi, finendo contro i pezzi di vetro sul terreno. Prima di potermi spostare, però, qualcuno mi afferrò i polsi e li strinse insieme, bloccandoli con delle manette. Erano così strette da tagliarmi la pelle.

«Hai il diritto di rimanere in silenzio» cominciò l’agente.

Non ebbi bisogno di continuare ad ascoltare il resto. Lo conoscevo bene. Sarei finito in prigione. Non potevo permettermi la cauzione, perciò sarei rimasto in stazione per due o tre giorni prima di essere portato di fronte un giudice.

E lì, di fronte a lui, avrei avuto la mia sentenza. L’unica differenza rispetto alle altre volte era che non ero più minorenne: quello che avevo fatto avrebbe sporcato la mia fedina penale, e me lo sarei portato dietro per sempre. Mi ero appena fottuto da solo, eppure una parte di me non era neanche sorpresa; sotto sotto, sapevo che, prima o poi, avrei rovinato tutto.

Seguii le istruzioni del poliziotto senza opporre resistenza. Sul sedile posteriore della macchina, lasciai i miei pensieri vagare indisturbati. Pensai a tutto quello che mi aveva portato lì. Pensai a Kendall. A tutto ciò che rimpiangevo, al fatto che l’avevo fatta arrabbiare così tanto per qualcosa che non comprendevo.

La verità era che la sera prima non era stata la prima volta che avevo visto Kendall: l’avevo già adocchiata durante la cerimonia di laurea di Cage. I nostri sguardi si erano incrociati durante la proclamazione; lei era sotto una quercia a godersi lo spettacolo, e d’un tratto ci eravamo guardati e non avevamo smesso. Ricordo di aver pensato che fosse la ragazza più bella che avessi mai visto.

Era vestita completamente di nero e i suoi riccioli castani scompigliati risaltavano i lineamenti spigolosi. E, per completare il look da non-me-ne-frega-niente, indossava degli occhiali, rotondi e leggermente dorati, che mi avevano dato l’impressione che ci fosse di più, in lei, di ciò che dava a vedere.

Del resto, anche in me c’era più di ciò che io davo a vedere. Ero un ladruncolo che organizzava lotte clandestine per ricavare qualche soldo. Ma non volevo nient’altro che avere qualcuno che potesse stringermi tra le sue braccia mentre mi diceva che tutto sarebbe andato per il meglio.

Quando avevo visto Kendall lì, per un attimo il mio cuore mi aveva implorato di essere esattamente quella persona, ma per lei. Forse nessuno lo avrebbe mai fatto per me, ma io avrei potuto salvarla. Avrei potuto proteggerla. Avrei potuto dare a Kendall tutto l’amore che io non avevo mai avuto. E nel momento stesso in cui avevo avuto la possibilità di farlo, avevo rovinato tutto semplicemente essendo me stesso.

Una volta in stazione, risposi a tutte le loro domande prima di essere scortato nella mia cella. C’erano altre due persone all’interno. Una sembrava completamente sbronza, e l’altra… beh, l’altra sembrava molto simile a me. Un ladruncolo che aveva finito il suo tempo libero.

Non ero dell’umore adatto per conversare, e, considerato che nessuno dei due provò a far conversazione, non dovevano esserlo neanche loro. Quella non era la mia prima volta in prigione, così, sapendo bene che ci sarebbe voluto del tempo, provai a mettermi comodo. Quindi potete immaginare la mia sorpresa quando, di punto in bianco, e troppo in fretta per non poter essere un errore, un altro agente si avvicinò alle sbarre e chiamò il mio nome.

«Nero Roman?»

«Sono io.»

«È stata pagata la tua cauzione. Andiamo.»

Mi alzai, certo che avesse fatto un errore. Ma se mi avessero dimesso a causa di un errore, io di certo non mi sarei lamentato. Facendo la stessa strada che avevo percorso poco prima, scannerizzai la stanza fino a quando i miei occhi non si posarono sull’ultima persona che mi sarei aspettato di vedere. Di fronte alle porte della stazione c’era Quin, la ragazza di mio fratello. E i suoi occhi erano così tanto spalancati che quasi temetti di vederli uscire fuori dalle orbite.

Considerato quanto benestanti fossero i suoi genitori, e considerato il fatto che aveva passato la maggior parte della sua infanzia andando in vacanza alle Bahamas, non era strano che trovarsi dentro una stazione di polizia gli stesse facendo perdere la testa. Ma non riuscivo a capire cosa ci facesse lì, di tutto principio. Non avevo usato l’unica chiamata che avevo a disposizione. Non riuscivo a pensare a nessuno che potesse aiutarmi.

Quando arrivai abbastanza vicino a lei, Quin mi strinse in un abbraccio genuino e forte.

«Dio, Nero, che cosa è successo? Che ci fai qua dentro? E perché non mi hai chiamato, soprattutto?»

Stavo per rispondere, quando qualcun altro che conoscevo varcò le porte della stazione. Titus era il mio compagno di stanza, e l’unico amico che avessi mai avuto nella mia cittadina. Anche lui, come me, si era fatto trasportare dall’idea di andare in quell’Università dalle uniche due persone che conoscevamo che ci erano state: Quin e Cage. Si avvicinò a me, ora, e come Quin mi abbracciò forte.

«Che diavolo è successo, amico? E perché abbiamo dovuto scoprire dove fossi da una guardia del campus?»

«Non è successo niente» dissi loro. «Ho solo fatto qualche piccolo danno ad una macchina.»

«Piccolo danno?» chiese Quin, allontanandosi di un pelo. «Hanno detto che hai completamente rotto un vetro e le portiere.»

«Come ho detto… qualche piccolo danno» dissi, l’ombra di un sorriso sulle labbra.

«Perché?» mi chiese Quin disperata, e vidi il suo viso carino contorcersi dalla preoccupazione.

Pensai a Kendall, e al modo in cui mi aveva detto di andare all’inferno.

«Non voglio parlarne. Avete un modo per portarmi via da qui?»

«Sì, ho la macchina» disse Titus, portandosi le dita tra i capelli color caffè. «Ho parcheggiato qui di fronte. Andiamo.»

Insieme, tutti e tre andammo verso la macchina di Titus, e tornammo al campus in silenzio.

«Dove vado?» chiese Titus, svoltando verso la strada del campus. «Lascio tutti ai propri dormitori oppure andiamo da Quin per la nostra solita cena della domenica?»

Stavo per chiedergli di portarmi al nostro dormitorio quando Quin mi batté sul tempo.

«Andiamo da me. Cage sta per tornare, e sono certa che vorrà sentire di questa storia. Sarà meglio parlarne a tavola.»

«Non l’hai detto a Cage, vero?» chiesi a Quin, sentendo il mio cuore stringersi dolorosamente.

«È stata la prima persona che ho chiamato dopo averlo saputo da Titus.»

Scoccai un’occhiataccia al mio compagno di stanza.

«Senti, amico, non c’era nient’altro che avessi potuto fare. Uno della sicurezza mi ha detto che avevi distrutto una delle loro macchine e che eri stato portato dentro. Chi altri avrei dovuto chiamare? Quin è l’unica persona qui che avrebbe potuto trovarti un buon avvocato.»

«Hai chiamato un avvocato?» chiesi a Quin.

«Non ce n’è stato bisogno. Cage è riuscito a contattare l’università e a sistemare un po’ le cose. Ha ancora un po’ di influenza qui dentro, con tutti i trofei che ha fatto vincere alla squadra. L’unica cosa che ho dovuto fare è stato pagare la cauzione per farti uscire.»

«Quindi non perderò la mia borsa di studio?»

«Non è quello che ho detto. Sono certa che Cage ti spiegherà tutto quello che devi sapere quando tornerà a casa. Sul serio, Nero… a che diavolo stavi pensando?»

Io non risposi.

«Quindi andiamo da Quin?»

Guardai fuori dal finestrino, sentendomi completamente sconfitto. «Sì.»

«Ottimo. Lou mi ha detto di non aver trovato nessuno con cui uscire stasera; quindi, sicuramente verrà anche lei» disse Titus, sorridendo.

Alle sue parole, sia io che Quin ci girammo a guardarlo.

«Che c’è? Siamo amici. So che voi due non avete molta esperienza nell’avere amici, però vi assicuro che uscire e fare amicizia è una cosa che la maggior parte della gente fa, nella propria vita.»

Mi girai a guardare Quin. Pensammo entrambi la stessa cosa. Titus non aveva mai detto nulla ma, da quando ci eravamo ritrovati a condividere una stanza, mi ero ritrovato a scoprire di avere molto in comune con il mio coinquilino, sebbene nessuno dei due sembrasse ancora pronto ad ammetterlo.

Titus e la compagna di stanza di Quin, Lou, erano molto uniti. Sapevo bene che essere amici con una ragazza non significava nulla, e in ogni caso Titus era un ragazzo molto amichevole. Ma non riuscii a fare a meno di pensare a quanto carini sarebbero stati, insieme.

Non l’avrei mai detto a Titus, però, perché non era una cosa da dire a un amico. Inoltre, cosa ne sapevo io, di relazioni? Inoltre, dopo quello che era successo con Kendall, mi ero ritrovato a dover riconoscere di sapere anche meno di ciò che avevo pensato.

Una volta di fronte all’enorme palazzo che rappresentava il dormitorio di Quin, Titus parcheggiò l’auto e insieme ci dirigemmo verso la sua stanza, venendo accolti alla porta da Lou.

«Ah, avete portato il criminale!» disse, fissandomi. «Cos’hai fatto, quindi? Rapina a mano armata? Furto con scasso?»

«Come fai a sapere cosa sono queste cose?» chiese Titus.

«Guardo Law & Order, mi sembra ovvio. Conosco i termini.»

Quin si mise in mezzo. «Non credo che Nero abbia voglia di parlarne, quindi…»

«Ah, ho capito. Hai fatto irruzione e preso qualcosa, semplicemente. Senti, non pensare che quest’alone da cattivo ragazzo che emani mi farà innamorare di te. A me piacciono quelli bravi.»

Aprii la bocca per parlare, ma non me ne diede il tempo.

«Okay, va bene. Possiamo uscire. Ma se mi ingravidi dopo una notte di passione sfrenata, sappi che terrò il bambino, e non ho alcuna intenzione di crescerlo da sola.»

Guardai Lou, e scoppiai a ridere. Quin e Titus mi seguirono a ruota.

«Sono seria, signorino! Non ho intenzione di crescere Nero Junior da sola.»

«Okay, promesso» dissi, sentendomi improvvisamente meglio.

Titus prese la parola. «Adesso che questa parte è stata chiarita, che ne dite di giocare a Wavelength?»

Wavelength era il gioco che facevamo ogni singola domenica sera, di solito quando non tirava un’aria così tesa e brutta.

Dividendoci a coppie, Titus afferrò Lou ed io mi ritrovai con Quin. Giocammo per qualche giro, e ritornai a respirare. Almeno fino a quando non arrivò Cage.

«Perché cazzo hai distrutto una delle macchine della sicurezza?»

«Era la loro macchina?» chiesi.

«Non lo sapevi?»

«Non è che stavo puntando a qualcuno in particolare. Ero solo incazzato.»

«Per che cosa?»

«Niente» dissi, perché davvero non avevo alcuna voglia di parlarne.

«Non lo vuoi dire, eh? Beh, sappi che dovrai parlarne. La scuola ha intenzione di fartela pagare in un altro modo, invece di farti andare in galera.»

«Non ho soldi.»

«Non ho parlato di soldi. Sei stato tu a distruggerla, e sarai tu a riparare il danno.»

«Potrei prestarti io i soldi» si offrì Quin.

«Non ho bisogno dei tuoi soldi!» scattai io.

«Attento, Nero, non farmi incazzare. Quin sta solo cercando di aiutare.»

«Non ho bisogno del suo aiuto! Non ho bisogno dell’aiuto di nessuno!»

«Considerato il fatto che saresti ancora dietro le sbarre se non fosse stato per Quin che ha pagato la tua cauzione, mi sembrano giganti stronzate quelle che hai appena detto. A te no?»

Chiusi immediatamente la bocca, perché sapevo che Cage aveva ragione. E nel momento stesso in cui non risposi, anche Cage restò in silenzio. I suoi occhi si riempirono di compassione e comprensione, e quando si avvicinò a me fu con tutta l’intenzione di starmi accanto. Mi gettò un braccio sulle spalle.

«Nero… hai un brutto carattere, e devi imparare a controllarlo.»

«Ci sto provando…»

«Eppure la mia ragazza ha dovuto pagarti la cauzione per farti uscire fuori di prigione, oggi.»

«Non so cosa dire», ammisi allora.

Cage restò a guardarmi. Doveva essere a corto di parole anche lui.

«M’inventerò qualcosa. Parlerò di nuovo con la scuola, con il rettore. Vedrò come poter sistemare la situazione. Non preoccuparti, ne verremo a capo. Sono qui per te sempre, Nero. Non vado da nessuna parte.»

«Nessuno di noi ha intenzione di andare da nessuna parte», aggiunse Titus.

«Già, proprio nessuno» si unì Quin.

Mi guardai intorno, incrociando lo sguardo dei ragazzi che avevo intorno a me ed asciugandomi una lacrima silenziosa che si era fatta strada sulla mia guancia. Forse, un giorno, tutto sarebbe riuscito ad aggiustarsi. Forse non ero solo come avevo sempre pensato. Non più.

 

 

Capitolo 3

Kendall

 

«Aaaah!» urlai, svegliandomi di soprassalto.

Mi guardai intorno. Ero nella mia stanza, ed era mattina. Cory era seduta, dritta e nervosa, sul suo letto, i suoi occhi incollati su di me. Sembrava spaventata.

«Era solo un brutto sogno» dissi, più a me stessa che a lei. «Solo un brutto sogno.»

«Evan Carter?» mi chiese Cory, rilassandosi un po’.

«Evan Carter», confermai io.

«Fottuto Evan Carter» disse Cory, facendomi sentire immediatamente meglio.

Mi lasciai andare nuovamente sul letto, cercando in tutti i modi di calmarmi. Non riuscivo a capire se gli incubi stessero peggiorando, ma di certo non stavano migliorando, e questo era chiaro.

Evan Carter era il giocatore di football che si era assicurato di rendere i miei anni di scuola superiore un inferno, sin dal primissimo anno. C’era qualcosa, di me, che proprio non riusciva a sopportare. Avevo sempre pensato fosse perché era uno stronzo col cazzetto piccolo che prendeva di mira chiunque non sapesse amalgamarsi.. Ma, a essere sincera, io non avevo mai neanche provato a far parte dell’ambiente scolastico in nessun modo.

Ogni singolo anno sperimentavo con qualcosa di nuovo: un colore diverso di capelli, del trucco stravagante sul viso, e un vestiario sempre diverso. Forse vestirsi come un ragazzo per un mese era stato troppo, per lui. Non stavo esattamente cercando di affossare il patriarcato, o qualcosa del genere. Semplicemente, sperimentare mi divertiva. E, allo stesso tempo, mi dava la possibilità di capire cosa mi piacesse oppure no, e chi fossi davvero.

Giusto per capirci, comunque, non sono una ragazza che si veste con abiti maschili o che sfoggia trucchi troppo vistosi. E non perché Evan Carter abbia passato tutti i suoi giorni a rendere la mia vita un inferno, finendo con il farmela odiare; semplicemente, non sono il mio stile.

Ma arrivò un momento in cui gli imbecilli della squadra di football non riuscirono più a sopportare le mie scelte stilistiche. Mi dissero che, se avessi voluto comportarmi come un ragazzo, mi avrebbero trattata come tale.

Da quel momento in poi, avevano cominciato a spingermi contro il muro ogni singola volta che si trovavano nelle mie vicinanze in corridoio. Non importava che rimanessi in silenzio in classe oppure che fossi a mangiare da sola in mensa, ad un certo punto avrei sentito la mia testa venire spinta da dietro per farla sbattere contro il tavolo. E, a cadenza regolare, mi lanciavano nello spogliatoio maschile mentre i ragazzi si stavano cambiando al suo interno.

Coglievano ogni occasione per umiliarmi davanti a quante più persone possibile. La cosa peggiore era che non riuscivo mai ad accorgermi in tempo dei loro attacchi. La cosa si fece così brutta che, ad un certo punto, avevo cominciato a passare le giornate a controllare di non averli nelle immediate vicinanze. Quando ne vedevo uno, mi assicuravo di rendermi il più invisibile possibile. Ma non importava mai; se quel giorno decidevano che doveva essere una giornata infernale, allora avrebbero fatto in modo di raggiungere il loro obiettivo.

E se non si trattava soltanto della violenza fisica, ma anche delle costanti prese in giro sulla mia mancanza di seno. So che ogni corpo è bello a modo suo, ma nessuno vuole che gli sia ricordata una cosa simile, soprattutto se gli viene ripetuta ogni giorno.

E poi, se avessi sentito un’altra volta, una sola, la parola ‘lesbica’ sarei crollata. Se mi fossero piaciute davvero le donne sarebbe stato lecito, ma non era così. Mi vestivo soltanto in quel modo… che non giovava a nulla, perché le ragazze si avvicinavano pensando fossi lesbica. Anche loro.

Arrivata all’ultimo anno, piangevo mentre mi vestivo al mattino, sapendo che, qualsiasi cosa avessi indossato, avrebbe scatenato l’ira di Evan. Giunsi al punto di non voler indossare più nulla. Ma lo facevo comunque perché… beh, chi lo sapeva più? Mi rifiutavo di soccombere, tutto qua.

Forse continuavo a vestirmi in quel modo per provare a me stessa che non mi sarei mai piegata alla cattiveria. Forse non volevo dargli la soddisfazione di vedermi cambiare. Forse mi piaceva semplicemente essere punita.

Qualsiasi fosse la ragione, avevo continuato a farlo a tal punto da ritrovarmi, a fine liceo, con pochissima voglia di vivere. Per tantissimi anni non avevo fatto altro che sognare il momento in cui sarei finalmente arrivata all’università per gettarmi tutto alle spalle. Avrei potuto vestirmi come volevo, avrei potuto essere chi ero. E all’inizio pensavo che tutto stesse andando per il meglio… prima che cominciassero gli incubi.

Ovviamente gli incubi c’erano sempre stati, anche prima. Ma, ora che mi ritrovavo lontano da loro, gli incubi sembravano essersi focalizzati principalmente su una persona: Evan Carter. Il leader del gruppo di bulli. Credo ancora che, se non fosse stato per lui, il resto della ciurma mi avrebbe lasciata in pace.

Penso che non lo saprò mai con certezza ma, l’unica cosa di cui sono sicura è che, al liceo,  avevo perso non solo tutte le battaglie… ma anche la guerra intera. Non solo ero stata io, in fin dei conti, ad aver vissuto quotidianamente quell’inferno, ma ormai, anche anni dopo, Evan Carter era radicato nella mia mente. Che merda…

La cosa più brutta, davvero, era che ero convinta che gli incubi stessero cominciando ad affievolirsi. Una volta li avevo almeno una volta a settimana; Cory ne sapeva qualcosa. Con tutte le volte in cui mi ero ritrovata a svegliarla di soprassalto per colpa delle mie urla, era un miracolo che fosse ancora la mia compagna di stanza.

Erano passate due settimane, però, dall’ultima volta in cui mi ero svegliata, urlante, nel bel mezzo della notte, prima di quel momento. E non avevo dubbi di quale fosse stata la causa scatenante, quella volta. Avevo baciato un giocatore di football. Il solo pensiero mi faceva quasi venire voglia di vomitare. Certo, Nero non era neanche lontanamente simile ad Evan Carter e i suoi amici stronzi… ma il problema era sempre lo stesso.

I giocatori di football avevano reso la mia vita un inferno di dimensioni epiche da quando avevo quattordici anni. Mi avevano tolto persino la voglia di vivere. Ad oggi, ancora non riuscivo a superare il trauma che mi avevano causato, e i miei incubi ne erano la prova. Non avevo intenzione di avvicinarmi a uno di loro, né ora, né mai.

«Non vai a lezione?» mi chiese Cory, ancora ferma sul suo letto.

«Oh, cazzo!» esclamai, ricordando la mia lezione fin troppo mattiniera del lunedì.

Il mio professore doveva essere un sadico. Chi mai troverebbe intelligente l’idea di tenere una lezione alle otto in punto del mattino? Ridicolo. Ma se volevo riuscire a diventare una psicologa, allora avevo bisogno di una laurea in psicologia. E ciò significava che non potevo perdermi le sue lezioni.

Scattai fuori dal letto, vestendomi velocemente. Una volta pronta, gettai tutti i miei averi dentro lo zaino e mi affrettai ad uscire. Arrivai in classe in ritardo, ma per essere le otto del mattino di un lunedì mattina, non mi sarei lamentata.

«Oggi compilerete il QET, ovvero il Questionario di Empatia di Toronto. Questo questionario non solo ci aiuterà a fare da introduzione per la discussione che avremmo aperto a breve riguardo l’empatia, ma darà a voi futuri psicologi la possibilità di capire se siete adatti o meno a questo tipo di lavoro» disse il professore una volta cominciata la lezione, catturando subito la mia attenzione.

Se c’era una cosa di cui ero assolutamente certa, era il fatto che volevo a tutti costi diventare una psicologa. Era il mio sogno da quando avevo appena dodici anni. La prima volta che avevo letto un libro approfondito sulla Psicologia avevo soltanto quindici anni. Avevo bisogno di superare quel test.

Quando il professore lasciò il foglio sul mio banco, notai quanto corto fosse il test. Persino le domande erano parecchio generali, niente di complicato. Scrissi velocemente il mio nome, e poi cominciai.

Quando qualcuno è eccitato per qualcosa, io tendo ad essere eccitato per loro: Mai, A Volte, Sempre?’

Quella era semplice. Potevo anche nasconderlo bene, ma lo ero sempre.

Le sfortune degli altri non mi creano particolare disturbo: Mai, A Volte, Sempre?’

Ancora una volta era semplice. Mai… la maggior parte delle volte.

Voglio dire, parliamo di persone normali? Anche sconosciuti, come probabilmente intendeva la domanda? In quel caso, non sarei mai riuscita a fregarmene delle sventure altrui. Ma se si fosse trattato di qualcuno come, giusto per dire, Evan Carter? Se Evan Carter venisse, per esempio, preso di petto da un autobus? Non necessariamente un colpo talmente forte da risultare nella sua morte… intendo un colpo abbastanza forte da fargli provare anche solo un minimo del dolore che lui, per tutti gli anni del liceo, aveva provocato a me.

Ma quella domanda certamente non poteva riferirsi a quel tipo di persona. Giusto? Oppure sì? Il questionario stava forse cercando di scoprire i miei segreti più oscuri? La mia mancanza di empatia nei confronti di uno psicopatico sarebbe stato il motivo per cui non sarei mai diventata una brava psicologa?

Restai a fissare la domanda per un tempo indefinito, come paralizzata. Non riuscivo ad andare avanti. Non riuscivo a credere che dopo tutto quello che Evan Carter mi aveva fatto passare, sarebbe stato proprio lui a rovinare tutti i piani che avevo per il futuro. Non riuscivo a credere che, oltre tutto quello che mi aveva già tolto in passato, sarebbe riuscito a strappare via dalle mie mani anche l’unico sogno che avessi mai avuto.

«Consegnate i vostri fogli, per favore» disse all’improvviso il professore, tirandomi fuori dalla mia trance.

«No, aspetta, non ho ancora finito il mio!» dissi alla ragazza che mi aveva appena strappato il foglio dalle mani. Lei si limitò a scrollare le spalle, come consapevole dei miei problemi, ma incapace di poter dire che gliene fregasse qualcosa. Non avevo dubbi che la Regina di Ghiaccio che mi aveva appena superato non sarebbe mai diventata un’ottima psicologa… ma io? Che ne sarebbe stato di me?

Non dovetti aspettare molto, per scoprire la risposta. Due giorni dopo, il mio professore mi chiese di fermarmi un attimo, alla fine della lezione.

«All’inizio del semestre, ho chiesto a te e ai tuoi colleghi quali fossero i vostri obiettivi per la fine di questo percorso», cominciò il professor Nandan.

«Sì. Ed io ho risposto che voglio diventare una psicologa, perché è così.»

Lui mi guardò confuso. «Giusto… il che mi porta a chiedermi, allora, perché ti saresti ritrovata a fare questo nel questionario che vi ho dato per scoprire il vostro livello di empatia» disse, prima di poggiare il foglio sul banco tra di noi.

«So di non averlo finito.»

«Non l’hai fatto, è vero. Ma non è di questo, che sto parlando» disse, poggiando il dito su uno scarabocchio fatto all’angolo del foglio.

Abbassai gli occhi su di esso per guardarlo, realizzando però che fosse più un effettivo, piccolo disegno piuttosto che uno dei miei soliti scarabocchi. I miei colleghi di corso mi conoscevano come quella che lasciava scarabocchi un po’ ovunque; era il modo in cui passavo il tempo quando ero annoiata, e non sempre ciò che disegnavo poteva considerarsi bello e felice. Quel piccolo disegno, lì all’angolo di quel foglio così importante, era decisamente uno di quelli infelici, e il messaggio che mandava era difficile da non cogliere.

«Hai disegnato un giocatore di football con al collo un cappio… su un questionario che aveva il compito di testare il vostro livello di empatia? C’è qualcosa di cui vorrebbe parlare, signorina Seers?»

Sentii la mia bocca aprirsi e chiudersi, i miei occhi alzarsi sul viso tondo dell’uomo di fronte a me. Nessuna di quelle domande avrebbe potuto giustificare quel disegno. Fottuto Evan Carter.

«Okay… posso spiegare» dissi, pur sapendo bene, dentro di me, di non avere la più pallida idea di come uscire da quella situazione.

«Prego» disse lui con urgenza eppure, in qualche modo, estremamente paziente.

Avrei dovuto mentire? Avrei dovuto dire la verità? Comunque fosse, nella mia testa sembrava non esserci una via d’uscita.

«Potrei avere qualche… problema, con i giocatori di football.»

«Ma non mi dica» rispose lui, sarcastico.

«E… ecco, il giorno del test potrei essermi svegliata male a causa di un incubo riguardo uno di loro, poco prima di venire in classe.»

«Vorrebbe parlarmi di questo sogno?»

«Non se posso evitarlo, no. È stato un incubo parecchio normale, niente di tremendamente strano. Tante corse, tanti inseguimenti… capisce, no? Il solito.»

«E quindi poi è entrata in classe e ha disegnato questo… sopra un test sull’empatia?»

«Sembrerebbe di sì» dissi, sorridendo a disagio.

Il professor Nandan si poggiò contro lo schienale della sua sedia, restando a fissarmi per un po’ senza dire una parola. Non riuscivo a capire cosa stesse pensando, ma non potevo dire di sentirmi sicura che fosse qualcosa di buono.

«Il modo in cui sopravviviamo ai traumi infantili è molto personale, diverso per ognuno di noi» cominciò. «Alcuni imparano ad evitare di pensarci del tutto. Ma il modo migliore per riuscire ad andare avanti in maniera serena e, per la maggiore, felice, è occuparsi del problema prendendolo di petto.»

«Pensa sia il caso che io vada da uno psicologo, per occuparmene?»

«Non le farebbe male, certo. Ma, in base ad alcuni studi, è stato scoperto che il modo migliore per imparare a provare empatia nei confronti di un determinato gruppo di persone è umanizzarle.»

«Io non penso che i giocatori di football non siano esseri umani. Penso solo che siano gli esseri umani peggiori che esistano.»

Il mio professore mi guardò in maniera strana.

«Giusto… ma riesce quantomeno a rendersi conto che non tutte le persone condividono le stesse caratteristiche? Non tutti i giocatori di football sono uguali. Come non tutti gli studenti che si vestono di nero e sono pieni di braccialetti sono uguali. Siamo tutti diversi a modo nostro.»

«Cosa sta suggerendo, quindi, esattamente?» chiesi, sentendo un peso sul petto.

«Le sto suggerendo di imparare a conoscere un giocatore di football. Io sono convinto che, se  riuscisse a conoscerli in maniera individuale, questo potrebbe aiutarla a scacciare via qualsiasi sentimento negativo abbia nei confronti del gruppo nella sua totalità. Potrebbe anche aiutarla con quegli incubi di cui soffre.»

«E… come pensa che dovrei conoscere un giocatore di football?»

«Per sua grandissima fortuna, c’è un corso che è da un po’ di tempo che provo a mettere in piedi. Una sorta di tutorato, in cui studenti di livello più alto vengono messi in coppia con nuove matricole che si ritrovano in difficoltà ad accettare questa loro nuova condizione, e che potrebbero aver bisogno di qualcuno a cui aggrapparsi. Considerato che il suo obiettivo è quello di diventare una psicologa, questa potrebbe essere una buona prova.»

«La cosa sembra fantastica. Però immagino che, quello che lei sta omettendo è che dovrei far da mentore ad un giocatore di football.»

«Esattamente. Ne abbiamo uno proprio adesso che sta riscontrando qualche problema a causa del suo temperamento. Invece di revocare la sua borsa di studio ed espellerlo, però, la scuola ha deciso di dargli questa possibilità: di aiutarlo, in qualche modo.»

Restai a guardare il mio professore, sbigottita. Era l’idea peggiore che io avessi mai sentito! Non quella di fare da mentore a qualcuno; al contrario, quella era fantastica. Ero d’accordo con lui quando diceva che mi avrebbe sicuramente aiutato nella mia carriera, in futuro. No, la brutta idea era quella di lasciarmi da sola, chiusa in una stanza, con uno di quegli psicopatici che passano il tempo a passarsi una palla e terrorizzare la gente.

Voleva farmi morire? Nel momento stesso in cui quella porta sarebbe stata chiusa ed io mi sarei ritrovata da sola con un giocatore di football, quello mi avrebbe uccisa. Avrebbe aperto le sue fauci e mi avrebbe ingoiato così, senza neanche masticare. Dopo avermi divorata ed essersi trasformato in questa creatura mostruosa e gigantesca, si sarebbe fatto strada verso Washington e avrebbe poi divorato anche il Presidente degli Stati Uniti, prendendone il posto e istituendo un regime dittatoriale… oppure stavo un po’ esagerando?

«Sì», risposi, parlando prima ancora di capire cosa stessi dicendo. «Lo farò.»

«Davvero?»

«A quanto pare.»

«Ne è sicura?»

«No. Però sì. Ascolti, voglio essere una brava psicologa, un giorno. No, non è vero. Non voglio semplicemente essere brava: voglio essere una dei migliori nel campo. Voglio essere in grado di aiutare le persone. Voglio aiutare i bambini a superare ciò che io ho dovuto sopportare, crescendo. E se questo significa dover imparare ad affrontare i miei demoni personali che hanno l’aspetto di giocatori di football, allora la risposta è sì.»

Il professore mi guardò in maniera strana, ed io provai a sorridere.

«Scherzo… diciamo. No, davvero, scherzo. Posso farcela. E ha ragione. Affrontare i problemi di petto è la cosa migliore da fare.»

«Allora preparerò tutto quanto. Grazie di aver dato la sua disponibilità! Se le cose riescono a funzionare tra lei e questo ragazzo, la cosa potrebbe aprire le porte anche ad altra gente, in futuro» mi disse lui, sorridendo.

«Quindi… niente pressioni, eh?»

Lui rise. «No, certo che no. Sia semplicemente sé stessa. Non deve riuscire a dare a questo ragazzo alcuna risposta. Deve solo essere presente per lui, dargli una spalla qualora ne avesse bisogno. Intesi?»

Io annuii. «Posso farlo.»

«Andrà alla grande, vedrà» mi disse, prima di promettermi di mandarmi tutti i dettagli via e-mail il prima possibile.

La cosa positiva era che gli esseri umani non avevano davvero bisogno di dormire per mantenere la loro sanità mentale. Perché, se fosse stato il contrario, allora io sarei stata fottuta: coricata sul mio letto, immersa nell’oscurità, non riuscivo a fare altro che pensare a Evan Carter e ciò che lui e i suoi compagni di squadra mi avevano fatto passare.

Non avevo la minima idea del perché avessi accettato. Fare da mentore ad un giocatore di football era stata una pessima idea. La cosa sarebbe finita male, ed io non avevo dubbi a riguardo.

La consapevolezza, però, non avrebbe fatto nulla per fermarmi dall’andare avanti con quel progetto. Chi ero io per dire di no ad una pessima idea?

Diretta verso il punto d’incontro stabilito, sentivo il sudore incollarmi i vestiti addosso. Ero nel bel mezzo di un attacco di panico, perché mentire? Ci saremmo incontrati nell’ufficio del coach della squadra. Praticamente, stavo andando dritta dentro la tana del lupo. Quantomeno, il mio professore sarebbe stato con me. Almeno all’inizio.

«Pronta a questa nuova avventura?» mi chiese lui, eccitato quasi quanto io, invece, ero terrorizzata.

«No, ma sono qui. Tanto vale andare.»

Il professor Nandan portò un braccio intorno alle mie spalle, e mi scortò dentro la stanza. La bestia sedeva, dandoci le spalle, su una delle sedie di fronte alla scrivania del coach.

La cosa divertente fu che non ebbi neanche bisogno di guardarlo in faccia, per riconoscerlo. Anche di schiena era impossibile non capire chi fosse. E quando si girò, e mi ritrovai faccia a faccia con quel viso da far perdere il respiro, non potei fare a meno di pensare che la mia vita fosse davvero un grande, incredibile scherzo.

«Tu?» chiesi, sorpresa.

«Vi conoscete?» chiese il mio professore.

Restammo a guardarci per un po’. Io non avevo la minima idea di cosa rispondere.

«Ci siamo già incontrati» rispose semplicemente Nero.

«Voglio sperare che siate in buoni rapporti» disse ancora Nandan.

Nero mi guardò di nuovo. «Sì», rispose dopo un po’, facendo rilassare il mio professore.

«Allora forse le presentazioni non sono necessarie. Però lo faremo lo stesso. Nero Roman, questa è Kendall Seers. Kendall, Nero è uno degli astri nascenti di quest’anno.»

«Ah… non sono certo di essere così bravo» disse Nero, velocemente.

«Ti ho visto giocare, figliolo. Sei molto bravo» disse l’uomo.

«Grazie» rispose Nero, distogliendo lo sguardo a disagio.

«E Kendall, qui, è una dei miei studenti più promettenti.»

«Lo sono» confermai. «La migliore, probabilmente.»

Non avevo la più pallida idea del perché avessi detto quello che avevo appena detto, ma riuscì a spezzare la tensione che si era creata nella stanza. Almeno per quei due. Non fece assolutamente nulla per me.

«Non sono certo che sia propriamente vero» scherzò il mio professore. «Però Kendall è davvero brava. Dovresti ritrovarti in buone mani, con lei. Vi lascio, così potete conoscervi meglio.»

«Non vedo perché no» rispose Nero, guardandomi come se, l’ultima volta che ci eravamo visti, gli avessi praticamente sputato in faccia, correndo via e lasciandolo a mangiare la polvere che avevo sollevato con i miei piedi.

«Molto bene, allora. Vado via» disse l’uomo estremamente contento prima di lasciarci soli, chiudendosi la porta alle spalle.

Io e Nero restammo semplicemente a guardarci. Sarebbe stata la cosa più brutta del mondo, se solo lui non fosse stato così bello. Davvero, come poteva essere legale, tanta bellezza? Non potei fare a meno di chiedermi che aspetto avesse senza tutti quei vestiti addosso.

«Quindi… di cosa vorresti parlare?» mi chiese, sorridendo. Diamine, che sorriso meraviglioso.

Forse all’inizio stavo davvero sudando, ma in quel momento mi ero completamente trasformata in una pozzanghera.

«Non fai caldo, qui dentro?» chiesi. «Volevo dire—fa! Fa caldo, qui dentro? Ti va di andare da un’altra parte? Andiamo da un’altra parte. Ho bisogno di un po’ d’aria. Non riesco a respirare, qui dentro.»

«Stai bene?» mi chiese, preoccupato.

«Ho solo bisogno di camminare un po’. Possiamo camminare un po’?»

«Possiamo fare quello che vuoi» rispose, liberando, in quella voce leggermente profonda, un po’ di quel suo accento e di quel suo charm da ragazzo del sud.

Lasciammo l’edificio dove i giocatori si allenavano, dirigendoci verso il campo in silenzio. A metà strada, però, mi resi conto che non avrei avuto modo di scappare via dalla situazione; così, semplicemente, trovai una panchina e mi ci sedetti. Nero si accomodò accanto a me. Riuscivo a sentire il suo profumo. Profumava di pelle e muschio. Anche solo il suo odore mi fece sentire un brivido tra le gambe. Dio santo, ma che problemi avevo? Eccitarmi per un giocatore di football?! Dovevo aver perso la testa.

«Come hai fatto ad indovinare?»

«Come ho fatto a indovinare cosa?» chiesi, ancora incapace di guardarlo.

«Che questo è il mio posto preferito. Non mi ricordo di avertelo detto, la notte in cui ci siamo conosciuti.»

«Questo è il tuo posto preferito?» chiesi, girandomi finalmente verso di lui.

«Sì. Mi fermo qui ogni singolo giorno, dopo gli allenamenti. Sono sempre pesanti, sai? Tutto può essere pesante, almeno per me. Quindi ogni giorno mi siedo qui, e provo a mettere ordine nei miei pensieri.»

Mi guardai intorno. Non mi capitava spesso di passare il tempo da questo lato del campus. Ma il posto era davvero bello, tranquillo, pacifico. C’erano più alberi rispetto al resto del campus, e con le foglie colorate dell’autunno sparse per tutto il campo, aveva quella bellezza tipica da copertina.

«Cos’è che diventa troppo pesante?» chiesi, sentendomi improvvisamente più calma.

Il sorriso che Nero aveva indossato fino a quel momento sparì di colpo. «Ogni singola cosa. Gli allenamenti, le lezioni. Il mio ritrovarmi a provare sentimenti che non dovrei provare.»

Restai a fissarlo per un po’, chiedendomi di che sentimenti stesse parlando. «Posso farti una domanda?»

«Spara.»

«Questo fascino del sud che sfoggi è solo una farsa?»

Lo vidi muoversi a disagio sulla panchina, come l’avessi colto di sorpresa; come fosse impreparato a rispondere a quella domanda.

«Non devi dirmelo se non te la senti.»

«Non è che non voglio dirtelo.» Nero fece una pausa e guardò il cielo mentre prendeva un respiro profondo. «Rigiriamo la domanda: questo atteggiamento da non-mi-piace-nessuno che hai è una forsa? Perché quando abbiamo parlato, alla festa, mi sei sembrata l’esatto contrario.»

Lo fissai come un cerbiatto davanti ai fari di un’automobile che sta per investirlo.

«Ero davvero ubriaca, quella sera.»

«E non significa che ti sei comportata come la vera te?»

Continuai a fissarlo senza parole. Stava insinuando avessi paura di mostrarmi per quella che ero. E la cosa peggiore era che ancora non ricordavo tutto ciò che avevo fatto quella notte. Era possibile che fosse a conoscenza di cose che mi riguardavano e che neanch’io sapevo.

«Non siamo qui per parlare di me.»

«Lo so. Stavo solo cercando di mostrarti che non avevo intenzione di eludere la tua domanda.»

«È che non conosci la risposta. Non sai se il tuo fascino è una facciata?» gli suggerii.

«È una brutta cosa?»

Nero mi guardò con gli occhi pieni di dolore. Sembrava un ragazzo che lottava costantemente con se stesso per scoprire chi fosse. Mi si strinse il cuore.

«Definisci ‘bello’ e ‘brutto’» gli chiesi con empatia.

«Beh… quando una cosa è buona, allora è bella. Quando una cosa non è buona, allora è brutta» disse, come se fosse imbarazzato dal fatto che non sapessi la differenza.

Lo fissai, non sapendo se fosse serio finché non scoppiò a ridere. Risi anch’io.«Wow, ottima spiegazione. Non l’avevo mai vista in questo modo» gli dissi, scherzando.

«Prego, prego» disse, continuando a scherzare.

Che fosse una farsa o meno, il suo fascino aveva funzionato, almeno con me. Non sapevo come, ma c’era riuscito. Improvvisamente, mi sentii più tranquilla e rilassata.

 

«Comunque, Ora che mi hai infuso un po’ della tua saggezza, forse puoi spiegarmi cosa ti ha portato qui.»

«Qui?»